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 2012  settembre 11 Martedì calendario

HONG KONG, VINCONO I DEMOCRATICI MA GOVERNANO ANCORA I COMUNISTI

A Hong Kong anche se hai la maggioranza dei voti del popolo resti sempre una minoranza nella stanza dei bottoni, perché devo­no governare i fedelissimi dei fur­bi mandarini comunisti di Pechi­no. Il sistema per ingannare la de­mocrazia è semplice: dei 70 seggi dell’assemblea locale solo 40 so­no eletti direttamente dal popolo. Il resto viene scelto da gruppi mol­to simil­i alle corporazioni del ven­tennio fascista. I membri sono im­prenditori o altre figure notoria­mente vicine, per motivi di interes­se, al potere comunista cinese. Se poi ci aggiungiamo la cronica divi­sione del fronte democratico, che spesso si presenta con candidati contrapposti per lo stesso seggio, la frittata è servita. «Abbiamo la maggioranza dei voti, ma meno seggi. È un risultato tragico» ha sentenziato Ronny Tong del Parti­to civico di Hong Kong.
Nell’ex colonia britannica, che gode di un particolare status am­ministrativo e almeno non deve votare per il partito unico, ci si at­tendeva un boom dei democratici nelle elezioni di domenica. So­prattutto dopo le proteste di mas­sa con tanto di scontri con la poli­zia per il tentativo degli amici di Pechino al potere a Hong Kong di imporre una «educazione morale e nazionale» nelle scuole. Uno dei passaggi più istruttivi da insegna­re agli studenti di Hong Kong non lasciava dubbi: «I sistemi a partito unico sono migliori di quelli multi­partitici, in quanto più stabili e al­truisti ». Entro il 2015 il nuovo cor­so di «morale» patriottica e comu­nista doveva entrare in vigore in tutte le scuole.
Le forze pro democratiche han­no conquistato 21 seggi «veri», ov­vero votati direttamente dal popo­lo, battendo i filo Pechino che ne hanno presi 19. Non solo: rispetto alle precedenti elezioni del 2008 sono molti di più gli abitanti di Hong Kong andati a votare. Stia­mo parlando del 53% dei tre milio­ni e mezzo di residenti con un’im­pennata dell’8%. E il bello è che il 60% degli elettori diretti ha scelto le forze pro democratiche. Gli os­servatori concordano che l’incre­mentata affluenza alle urne è det­tata proprio dall’insofferenza con il potere filo Pechino.
La doccia fredda è arrivata con il voto delle «corporazioni» sui 30 seggi non sottoposti al suffragio di­retto. I democratici ne hanno otte­nuti solo 6 grazie alla stragrande maggioranza degli aventi diritto legati al regime cinese. Il risultato finale delle alchimie elettorali dei mandarini rossi è che l’organo di autogoverno di Hong Kong conta su 43 teste filo Pechino contro le 27 che vogliono la piena democra­zia. E a questo punto rischiano di non averla mai.
Per fortuna i democratici sono riusciti a mantenere la soglia che permette all’opposizione di porre il veto sulle leggi significative di Hong Kong. A cominciare dai cambiamenti costituzionali di questa regione cinese semi auto­noma che contemplano la piena democrazia. La debacle però è co­cente a tal punto che lo storico lea­der, Albert Ho, si è dimesso dalla guida del Partito democratico in­vocando «una profonda riflessio­ne per le riforme del futuro». I filo Pechino, più compatti, organizza­ti e ben finanziati dalla capitale co­munque fregano sempre chi non vuole il sistema comunista.
Nonostante sia in aumento l’in­soddisfazione popolare per l’au­mento dei prezzi delle proprietà, la corruzione e gli ospedali sovraf­follati grazie a pazienti che arriva­no dall’entroterra cinese. L’ulti­ma trovata del Chief executive , Leung Chun-ying, che guida Hong Kong da luglio, era stata la nuova morale patriottica nelle scuole. Un giorno prima delle ele­zioni i centomila abitanti di Hong Kong scesi in piazza l’hanno co­stretto a fare marcia indietro ri­mandando l’applicazione della di­rettiva. L’obiettivo era inculcare nei giovani «l’amore per la madre­patria » in mano al partito unico con la bandiera rossa. Il sistema elettorale abilmente pilotato dai mandarini comunisti ha confer­mato Leung Chun-ying per quat­tro anni, ma prima o dopo i nodi verrano al pettine. Nel 2017 Hong Kong dovrebbe eleggere diretta­mente la sua guida esecutiva e tre anni dopo tutto il parlamentino dell’ex possedimento britannico verrà teoricamente votato dal po­polo. Peccato che Pechino non ab­bia mai indicato un preciso per­corso verso la vera democrazia ga­rantendo solo la «libertà»ammini­strativa di Hong Kong fino al 2047.