Ricardo Franco Levi, Il Sole 24 Ore 8/9/2012, 8 settembre 2012
GIOCARE D’ANTICIPO SULLO SCUDO UE
Trascinando con sé il suo intero Consiglio direttivo salvo il presidente della Bundesbank, relegato in una isolata opposizione, Mario Draghi, il «più potente banchiere centrale del mondo» secondo la definizione del New York Times, ha schierato la Banca Centrale Europea a difesa dell’euro, indirizzando parole chiare ai mercati e ai governi. Ai primi ha detto che, per difendere la moneta unica, definita «irreversibile», e per abbattere gli inaccettabili premi sul rischio che gravano sui titoli di Stato di molti paesi, la Bce è pronta a intervenire con risorse «illimitate». Ai secondi ha confermato che la Bce interverrà solo se e quando questi Paesi avranno formalmente richiesto l’aiuto dei fondi salva-Stati dell’Unione Europea (Efsf e Esm) e ne avranno accettato le condizioni «severe ed efficaci».
Cosa deve fare, allora, l’Italia? Negoziare per ottenere uno scudo protettivo dei propri titoli pubblici o scegliere di "fare da sola", più libera da condizionamenti ma più esposta alle tensioni dei mercati?
La risposta dipende, innanzitutto, da quello che succederà dopo che la Spagna avrà chiesto, come è ormai certo, l’intervento dell’Europa. Può darsi che, a quel punto, le cose vadano tutte per il meglio e che la calma torni sui mercati. Ma è possibile che le cose prendano, invece, una brutta piega. Cioè che, con i titoli spagnoli coperti dallo scudo europeo, i mercati prendano di mira quelli italiani. Dopo la Grecia la Spagna, dopo la Spagna l’Italia. Ma se esiste questa possibilità, allora è meglio giocare d’anticipo e chiedere noi l’intervento dei fondi salva-Stati.
Dopo tanto chiedere "più Europa" per affrontare la crisi e quando finalmente le istituzioni europee si attrezzano per intervenire, sarebbe davvero paradossale che proprio l’Italia, paese fondatore dell’Unione Europea, tra i principali finanziatori dei fondi salva-stati e in prima linea sotto il fuoco della speculazione internazionale, contribuisse ad impedire all’Europa di fare tutto il possibile per garantire la irreversibilità della moneta comune.
A fronte di uno "spread" che oscilla attorno al 4,5 per cento, la Banca d’Italia calcola che solo il 2 per cento circa sia "colpa nostra", il di più essendo dovuto al timore sulla tenuta dell’euro. Interventi di Efsf/Esm e Bce (o anche, se bastasse, soltanto la loro minaccia) che riducessero sensibilmente o cancellassero questo premio supplementare avrebbero, pertanto, l’effetto di abbassare sensibilmente il costo per interessi che grava sul bilancio italiano. Altrettanto importanti potrebbero essere i benefici per le banche, le assicurazioni e le imprese.
Insomma, con l’attivazione dello scudo europeo potrebbero davvero liberarsi in misura consistente nuove risorse a favore della crescita contribuendo ad avviare un ciclo virtuoso per l’economia italiana. Ciononostante, ha sinora prevalso la linea del "possiamo farcela soli", del no al "commissariamento da parte dell’Europa" e ad una "camicia di forza" che "vincolerebbe i governi di italiani di oggi e di domani". Salvo precisare che, quand’anche l’Italia si decidesse a domandare gli aiuti, questo significherebbe solo confermare impegni già assunti perché si tratterebbe di un atto meramente dichiarativo, senza nuove obbligazioni.
In realtà - e su argomenti di questo genere è bene evitare messaggi illusori per gli italiani e ambigui per le istituzioni europee - si sa che le cose non stanno e non starebbero così. Perché il Protocollo di Intesa o Memorandum of Understanding (MoU) che il nostro governo dovrebbe sottoscrivere conterebbe certamente condizioni precise, tradotte in impegni dettagliati e relative scadenze e con controlli affidati alla Commissione Europea, alla Bce e con la partecipazione anche del Fondo Monetario Internazionale.
Ma sarebbero condizioni conosciute, sopportabili e corrispondenti al nostro interesse. Perché si tratterebbe di condizioni già ben note e corrispondenti, in particolare, alle sei Raccomandazioni all’Italia della Commissione Europea dello scorso 30 maggio, fatte proprie prima dai ministri finanziari e poi dal Consiglio Europeo di fine giugno sul quale il governo ha già riferito al Parlamento.
E, ancora, perché, in relazione alle prime due Raccomandazioni, relative al deficit e al debito, sono gli stessi documenti europei che riconoscono che l’Italia, con la conferma del bilancio in equilibrio strutturale nel 2013 e con l’inserimento in Costituzione dell’obbligo del pareggio di bilancio, ha già fatto i propri "compiti a casa".
Certo, resterebbero, le altre quattro Raccomandazioni che riguardano, tuttavia, i temi più direttamente collegati alla crescita (dal mercato del lavoro alla efficienza della giustizia e della pubblica amministrazione sino all’istruzione), sui quali è innanzitutto nostro interesse nazionale intervenire e rispetto ai quali non sparirebbero comunque i margini per gli esecutivi, il Parlamento e i partiti per dare il proprio segno politico all’azione di governo.
Tutto bene, dunque? Tutto facile? No.
Ci sono dei rischi: che i mercati prendano l’eventuale richiesta di aiuti come la conferma che l’Italia non ha più altre carte da giocare; che prima l’Eurogruppo e poi la Bce ritardino nelle loro deliberazioni, aprendo, così, un varco temporale alla speculazione contro i titoli italiani; che i mercati dubitino della adeguatezza delle risorse a disposizione per l’aiuto all’Italia. C’è, infine, l’inaccettabile prospettiva che le condizioni degli aiuti non siano concordate con le sole istituzioni europee, con la Commissione in prima fila, ma imposte da altri paesi.
A questo insieme di rischi e di timori è possibile rispondere se si accetta a viso aperto la sfida facendo nostri gli impegni necessari per l’attivazione dello scudo europeo. In concreto, questi impegni, il cui ideale complemento e suggello sarebbe l’avvio di una straordinaria e concreta operazione di riduzione del debito anche nella più prudente versione suggerita dal ministro Grilli, dovrebbero essere esplicitati direttamente dal governo e sottoposti all’approvazione del Parlamento a partire, già questo mese, dall’aggiornamento del Documento di economia e finanza.
Tanto più precisa e chiara fosse l’espressione di volontà di proseguire al di là del 2013 nel rispetto dell’agenda di risanamento e riforma che venisse codificata nel MoU, tanto più forte sarebbe sui mercati l’effetto di rassicurazione rispetto ai timori per il dopo-Monti.
L’Italia non potrà, però, essere la sola parte chiamata ad impegnarsi. Anche l’Europa dovrà fare la sua parte.
Ad Eurogruppo, Commissione e Bce si dovrebbe innanzitutto chiedere di manifestare ufficialmente, il giorno stesso della firma del MoU, il proprio sostegno all’intesa per dare immediatamente ai mercati l’assicurazione sulla certa attivazione dello scudo europeo.
L’Italia, dovrebbe, poi, insistere, mettendolo come una condizione per la firma del MoU, perché fossero immediatamente aumentate le risorse dell’Esm eliminando il tetto artificiale delle risorse combinate di Efsf e Esm, attualmente stabilito a 500 miliardi di euro, e portandolo, così, a circa 700 miliardi.
Per concludere a favore della richiesta degli aiuti europei rimane da rispondere a una obiezione. Non si rischia, così, di esporre il governo e personalmente il presidente del Consiglio all’accusa di avere fallito nella missione di salvare il paese facendo, quindi, loro pagare un indebito e ingiusto prezzo politico?
Onestamente, non si può escludere che questo avvenga. Ma, se il ricorrere allo scudo europeo può contribuire a mettere in sicurezza l’euro, a ridurre il costo del finanziamento del nostro debito, a creare condizioni generali più favorevoli alla crescita, perché mai il governo Monti non lo dovrebbe fare? E se anche ci fosse un prezzo politico da pagare, perché di fronte a questa prospettiva si dovrebbe ritirare un governo tecnico, per sua natura e ripetuta volontà al riparo da ogni futura preoccupazione elettorale?
Insomma, se non ora, quando? E se non Monti, chi?
L’autore è deputato del Partito Democratico