Luigi Zingales, Il Sole 24 Ore 9/9/2012, 9 settembre 2012
LA SCOMMESSA DI DRAGHI E IL DOVERE DEI GOVERNI
Di questi tempi fare il banchiere centrale è difficile. Passata è l’epoca in cui il governatore della Federal Reserve Bank Alan Greenspan era venerato da tutti come il "Maestro". Oggi il suo successore Ben Bernanke è costantemente attaccato sulla stampa, in Parlamento, e nel Paese. Se è difficile fare il governatore della Fed, è ancora più difficile fare quello della Banca centrale europea. In aggiunta ai problemi comuni a tutti gli altri banchieri centrali, Mario Draghi deve preoccuparsi dei problemi politici di un’unione che non esiste, se non nella moneta. Questo vuoto istituzionale, costringe Draghi a fare quello che nessun banchiere centrale vuole mai fare: sostituirsi all’autorità politica. Per capire le mosse di Draghi, bisogna capire i suoi dilemmi. Come governatore della Bce, Draghi non deve preoccuparsi solo della politica monetaria tradizionale, ma anche della sopravvivenza dell’euro. Questa sopravvivenza oggi è minacciata dal rischio di default di Spagna e Italia. Se l’anno scorso si poteva affermare con certezza che l’Italia era a rischio per colpa della sua politica, oggi questo è più arduo. Pur con tutte le sue limitazioni, è difficile immaginare un governo più rigoroso di quello di Monti. Perché allora l’Italia a metà luglio pagava uno spread sui Bund tedeschi superiore ai 500 punti? La maggior parte dei politici italiani ed europei ritiene si tratti della speculazione malvagia. I più sofisticati invocano il rischio di equilibri multipli. Quando uno Stato sovrano ha un livello di debito molto elevato, la paura di un default diventa autorealizzantesi: i dubbi fanno aumentare i tassi di interesse che uno Stato deve pagare sul mercato, aggravando il deficit e spingendo un Paese verso il default. Io penso che si tratti del rischio associato al l’incertezza politica nel lungo periodo. Se in questo momento l’Italia sta facendo tutto il possibile, ci sono fondati dubbi su cosa succederà dopo le elezioni del 2013. In tutti e tre i casi, però, il dilemma è lo stesso: o la Banca centrale interviene o l’Italia fallisce. Per tranquillizzare i mercati, però, non basta un intervento limitato. Draghi ci ha provato a dicembre con i finanziamenti a più lungo termine (longer-term refinancing operations o Ltro). I 500 miliardi offerti alle banche hanno allentato la pressione per qualche mese, ma non hanno risolto il problema. L’unico modo per risolverlo è un impegno preciso della Bce a comprare quantità illimitate di titoli dei Paesi a rischio. Purtroppo questo impegno distrugge qualsiasi disciplina di mercato. In assenza di un’unione politica, l’Europa ha fatto affidamento sul mercato per forzare i governi alla disciplina fiscale. Il famoso patto di stabilità, deciso a livello europeo, è stato costantemente violato da tutti (Germania compresa). Se la Grecia, l’Italia, la Spagna, il Portogallo e l’Irlanda hanno fatto importanti riforme non è per le pressioni venute da Bruxelles, ma per quella venuta dal mercato. Come è possibile tranquillizzare i mercati senza distruggerne la disciplina? L’ovvia soluzione sembrerebbe quella della condizionalità: la Bce interviene solo se alcune condizioni sono soddisfatte. Purtroppo anche questa soluzione ha i suoi problemi. Se le condizioni sono pre-specificate e l’intervento è automatico, nulla previene un governo dal condurre una politica dissennata per lungo tempo e poi cambiare all’ultimo momento, ottenendo l’aiuto. Contando sull’automaticità dell’aiuto, il mercato non imporrà alcuna disciplina. È come se l’unico strumento che avete per disciplinare i vostri figli è non lasciarli uscire con gli amici. Se però vi siete impegnati a farli uscire ogniqualvolta promettono di comportarsi bene in futuro, indipendentemente da cosa hanno combinato in passato, quale speranza avete di educarli? Una possibile soluzione (tanto nel caso del genitore come in quello della Bce) è di imporre che l’aiuto continui solo se le condizioni imposte continuano ad essere rispettate. Il problema è che questa condizione non è credibile per un Paese come l’Italia, indebitato al punto da essere a rischio di default. Senza sostegno rischierebbe il default e questo creerebbe problemi enormi all’area euro. In altre parole, se le condizioni non sono rispettate, la Bce non avrà mai la forza di staccare la spina. Senza condizioni credibili, l’aiuto diventa automatico. Ma se è automatico, il mercato non impone alcuna disciplina. Un’alternativa possibile è quella di promettere l’aiuto solo a condizioni che rimangono vaghe. Con questa incertezza, il mercato continuerà a richiedere un premio per prestare ai Paesi a rischio, mantenendo sui loro governi una certa salutare pressione. Nel contempo, la possibilità di intervento evita il rischio di una catastrofe. Purtroppo anche questa soluzione ha dei problemi. Se il mercato non crede all’intervento, i tassi rimangono elevati e la bancarotta si avvicina. Se ci crede troppo, la pressione si allenta, e c’è il serio rischio di dover ricorrere a massicci aiuti. L’altro rischio è che la mancanza di regole predeterminate trasformi la Bce in un’autorità politica. Se il programma di governo economico di Roma (o Madrid, o Atene) viene deciso a Francoforte come condizione per l’aiuto, perché mai gli italiani dovrebbero andare alle urne? La Bce (che non è eletta) non vuole assumersi questa responsabilità perché è ben consapevole delle conseguenze politiche che questo comporterebbe. Negli Stati Uniti Bernanke è attaccato perché molti americani ritengono che si sia sostituito al governo. Immaginiamo cosa succederebbe in Europa. Nel suo annuncio di giovedì Draghi ha cercato di quadrare il cerchio. Se da un lato l’intervento promesso è (per la prima volta) illimitato, dall’altro è condizionato. Condizionato però non a decisioni della Bce, ma ad una decisione del Fondo monetario internazionale, con criteri non predeterminati. Questo toglie parte dell’arbitrarietà, ma anche parte della responsabilità politica. L’intervento, poi, è limitato al mercato secondario dei titoli, ovvero non finanzierà direttamente i deficit dei vari Paesi. Oltre ad essere coerente con il mandato della Bce, questa scelta aumenta la pressione sui governi. Per finanziare il loro deficit dovranno ricorrere allo European stability mechanism (Esm), il fondo di intervento deciso dai governi europei. Poiché questo fondo verrà gestito dai governi europei, la responsabilità di verificare le condizioni è trasferita a un’autorità politica, non monetaria. L’unico aspetto sorprendente dell’annuncio di Draghi è che sia avvenuto prima della decisione della Corte costituzionale tedesca sull’ammissibilità dell’Esm. È sorprendente perché Draghi si espone fortemente: se la Corte suprema boccia l’Esm, il suo piano di intervento crolla e con esso i mercati. Perché Draghi si è arrischiato adesso invece di aspettare dieci giorni? Alcuni sostengono che Draghi abbia avuto rassicurazioni sull’esito della decisione. Io, invece, penso che abbia giocato preventivamente per influenzare la decisione. Da un lato, la paura dei tedeschi è proprio quella di dover finanziare senza fine i deficit degli Stati prodighi. Un meccanismo chiaro che limiti questi rischi riduce il rischio che la Corte si opponga. Dall’altro, rassicurando i mercati prima della decisione, Draghi alza la posta in gioco. Se la sentono i giudici tedeschi di bocciare l’Esm, quando la loro decisione potrebbe avere un effetto catastrofico immediato sui mercati? Funzionerà la scommessa di Draghi? Mi azzardo a dire che, per quanto riguarda la Corte tedesca, la risposta è sì. Meno ovvia è la risposta per quanto riguarda i mercati. Troppe volte abbiamo visto l’euforia dell’annuncio scontrarsi con la realtà dei fatti. Ma c’e una grossa differenza. A luglio Draghi aveva per la prima volta pronunciato la frase magica: "Whatever it takes". Giovedì ha declinato questa frase con l’altra parola magica nel linguaggio dei banchieri centrali: "Illimitato", l’intervento della Bce sarà illimitato. Questa combinazione massimizza la probabilità che il meccanismo funzioni nell’allentare la pressione del mercato. Ora spetta a noi italiani non sprecare l’opportunità. Di certo possiamo solo dire che Draghi sa far bene il suo mestiere. Se non portasse sfortuna, mi verrebbe da chiamarlo "Maestro".