Roberta Paolini, Affari & Finanza, La Repubblica 10/9/2012, 10 settembre 2012
AUTO, ELETTRODOMESTICI, TUBI QUANTO CONTA L’ACCIAIO ILVA PER L’INDUSTRIA ITALIANA
La gestione della crisi Ilva si annuncia come una delle partite più complesse che si possano immaginare. Da una parte l’impatto ambientale. Dall’altra il peso di numeri che spiegano come le ipotesi di una chiusura aprirebbero scenari in cui si ridisegnano gli equilibri non solo italiani ma anche europei nel settore della siderurgia. Secondo le stime della Federacciai, la sparizione dell’acciaieria del Gruppo Riva aprirebbe le frontiere all’incursione di competitors stranieri pronti ad accaparrarsi le quote di mercato lasciate vacanti. Di più: ridurrebbe il ruolo in Europa del comparto siderurgico italiano (oggi al secondo posto per produzione dopo la Germania) e metterebbe in seria difficoltà tutta l’industria utilizzatrice a valle della filiera.
Il governo del premier Mario Monti, nei giorni scorsi, si è impegnato a garantire la continuità produttiva, con interventi finalizzati a migliorare la sostenibilità ambientale e la salute dei cittadini di Taranto. Ma le incertezze restano forti al momento. E l’incertezza, come noto, fa male al mercato e anche questa fase di interregno, in cui i custodi giudiziari tengono le sorti degli impianti dell’Ilva sotto sequestro, in attesa di pronunciarsi sulle azioni per ridurre l’impatto ambientale, alcune conseguenze le avrà.
Di fatto ad oggi nessun interruttore dei 4 altiforni attivi (su 5 totali) è stato spento all’ex Italsider, sulla quale il Gip di Taranto, il 26 luglio scorso, ha disposto i sigilli sui parchi minerali, le cokerie, l’area agglomerazione, l’area altiforni, le acciaierie e la gestione materiali ferrosi. «Chiuderli è un procedimento delicato e rischioso - afferma Antonio Gozzi presidente di Federacciai - e poi per ricostituirli sarebbero necessari circa 300 milioni di euro a forno». Ma questa è solo una parte dei costi.
L’Ilva pesa non solo sul comparto siderurgico in termini di milioni di tonnellate prodotte, ma incide in maniera determinante sulla cosiddetta industria utilizzatrice. Questo mastodonte che ingloba due acciaierie ha un capacità produttiva di circa 10 milioni di tonnellate l’anno. Negli ultimi dodici mesi ha fatto uscire 8 milioni di tonnellate di prodotti finiti piani. Nel portafoglio clienti dell’unità produttiva pugliese del Gruppo Riva ci sono Fiat, Bmw, Peugeot, i principali tubisti italiani come Marcegaglia, Alfieri e Padana Tubi, le carpenterie metalliche, come Cimolai e il Gruppo Manni, imprese del settore elettrodomestici e caldaie, aziende del comparto costruzioni che operano nella realizzazioni di grandi infrastrutture (come ponti). Poi c’è tutta la parte legata al commercio di prodotti piani, che compra lamiere e coils da Ilva per approvvigionare la piccola domanda frammentata e locale degli artigiani e delle micro aziende. Si tratta di una rete di circa 1500 commercianti, metà dei quali tratta prodotti piani. Del segmento dei prodotti piani l’Ilva ha l’80% del mercato nostrano (il 40% in complesso sui 28,5 milioni di tonnellate di produzione di acciaio italiana). «La struttura industriale nazionale - conteggia Gozzi - si mangia 5 milioni degli 8 milioni di tonnellate prodotte dall’Ilva, ovvero il 40/45% fabbisogni della filiera industriale trasformatrice, se mancassero questi 5 milioni le fabbriche a valle della filiera dovrebbero importare dall’estero, con extra costi di natura logistica, finanziaria e di una supply chainpiù lunga. Un combinato disposto che avrebbe come effetto uno spiazzamento competitivo per queste industrie che va tra i 2 e i 5 miliardi di euro».
E questo è, ovviamente, solo un pezzo del problema, perché Ilva con la sua egemonia nel comparto dei prodotti piani, se dovesse svanire, aprirebbe una faglia gigantesca nel mercato siderurgico italiano in cui i primi ad infilarsi sarebbero i competitor stranieri. Al momento nessun gruppo siderurgico nazionale sarebbe in grado di compensare la sparizione di Taranto dal proscenio industriale nazionale. Ci sarebbe il Gruppo Arvedi, unico concorrente di Ilva, ma che non ha capacità produttiva non occupata per coprire eventuali ulteriori fabbisogni. Mentre alla porta sono pronti a scattare i big europei, che sarebbero in grado di coprire senza problemi la domanda scaturita dall’assenza di Taranto. Sono ArcelorMittal, prima di tutto, e poi i danesi di Corus, ThyssenKrupp, i signori dell’acciaio cinese e russo, che in breve tempo e con lieve sforzo, potrebbero accaparrarsi senza problema questa fetta di mercato.
Poi c’è il contesto internazionale. L’Ilva ha esportato nell’ultimo anno 3 milioni di tonnellate (2,5 nella UE e mezzo milione nell’extra UE). L’impatto sulla bilancia commerciale italiana sarà dunque doppia: un maggiore costo per importare i milioni di tonnellate di acciaio mancante, e un ulteriore costo di sistema per la riduzione delle esportazioni.
L’effetto complessivo di sostituzione sulla bilancia commerciale oscilla tra 3,7 e i 5,5 miliardi all’anno. A questi valori vanno aggiunti altri oneri legati all’importazione, che si muovono nella forbice tra i 750 milioni e 1,5 miliardi di euro. E scendendo nelle considerazioni il conto economico diventa sempre più rosso. L’onere complessivo per la cig, dice Federacciai, potrebbe essere stimato in circa 330 milioni l’anno.
Vanno inoltre considerati i costi legati ai minori introiti in termini di imposte ed altri oneri sociali, l’impatto sociale sul territorio pugliese per il fatto che migliaia di persone si troverebbero senza salario. Tutto sommato la cifra paventata è di circa 8 miliardi di euro l’anno.
«Nel breve periodo non ci sono ancora conseguenze - dice Gozzi sappiamo che tutti i grandi clienti hanno confermato gli ordini». Per il momento resta tutto sospeso su Taranto, in attesa che i custodi nominati dal Gip presentino il loro piano di risanamento ambientale. Intanto la settimana scorsa è stato notificato il blocco dello scarico delle materie prime nell’area dei parchi minerari, che servono per far funzionare gli altiforni. Secondo fonti sindacali le materie stoccate sono sufficienti a mantenere in funzione gli impianti per 15-20 giorni al massimo, altre fonti dicono più ottimistiche dicono almeno 2 mesi. Ed entro questo breve tempo si dovrà arrivare a una decisione definitiva.