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 2012  settembre 07 Venerdì calendario

La beffa delle quote rosa Inutili e pure dannose - Avanzo una proposta di leg­ge: si impongano quote minime di partecipazio­ne ai consigli di amministrazio­ne delle società quotate per per­sone di pelle scura, per i diversa­mente abili, per i seguaci di reli­gioni diverse dalla cattolica

La beffa delle quote rosa Inutili e pure dannose - Avanzo una proposta di leg­ge: si impongano quote minime di partecipazio­ne ai consigli di amministrazio­ne delle società quotate per per­sone di pelle scura, per i diversa­mente abili, per i seguaci di reli­gioni diverse dalla cattolica. Al­meno pareggiamo il conto con la legge Golfo-Mosca (dal nome dei due geni parlamentari che l’hanno proposta) approvata nel luglio 2011 ed entrata in vigore lo scorso 12 agosto, la quale preve­de di riservare un quinto dei po­sti al genere meno rappresentato in occasione del primo rinnovo dei consigli di amministrazione e un terzo al secondo rinnovo. Ciò che è inutile, è dannoso. La legge Golfo-Mosca rientra pro­prio in questa categoria di prov­vedimenti. Perché? Perché ad og­gi non esiste alcuna evidenza scientifica conclusiva sulla mag­giore efficacia dei consigli con una presenza femminile. Aggiun­go: mi sorprenderei del contra­rio. Tralascio di annoiarvi sulla co­piosa letteratura scientifica di­sponibile e mi concentro su uno studio pubblicato nel mese di agosto nientepopodimeno che dalla banca Credit Suisse. Attra­verso l’analisi di un campione di 2.360 società, i ricercatori giungo­no alla conclusione che le azien­de con una o più donne in consi­glio hanno ottenuto risultati mi­gliori in termini di redditività, di minore indebitamento e di supe­riori valori di borsa. In particola­re, la migliore performance co­mincia a manifestarsi a partire dal 2008, mentre prima della cri­si non si evidenzia alcuna diffe­renza significa­tiva. Segno che la presenza del­le donne au­menta anche le difese delle società quan­do le cose si mettono male. Bum! Si tratta di un esempio di come la ricer­ca scientifica non vada fatta e di come, an­cor più, le con­clusioni cui si perviene siano del tutto prive di robuste gam­be. Ve ne dico una, tanto per intenderci. Forse non tutti sanno che il nu­mero medio dei consiglieri di amministra­zioni in Euro­pa è di circa 15 componenti (dati 2010). Il numero delle donne è invece in media pari a 1,7. Dati non estremamente dissi­mili caratterizzano altre regioni del globo. Ebbene, secondo Cre­dit Suisse, se si pone a confronto la performance delle aziende con una/due donne in consiglio con quella di aziende che donne in consiglio non ne hanno, si os­serva che le aziende womenfrien­dly ottengono risultati migliori. Perbacco! Cioè a dire che il 10 per cento del consiglio è in grado di fare una robusta differenza nei destini di una società. Se poi si considera che di rado le don­ne ri­vestono in­carichi esecuti­vi, quelle con un ruolo di semplici consi­glieri devono essere eviden­temente tutte wonder wo­man o cat wo­man. E non ce ne siamo anco­ra accorti! Ancora più risibili sono le motivazioni con cui vengo­no spiegati i successi eco­nomici indotti dalla presenza femminile. Nello studio ne vengono suggeriti sette, ma io ve ne ri­porto tre, suffi­cienti per capi­re di che tono è la musica. Un primo motivo è che la presen­za femm­inile contribuisce ad au­mentare gli sforzi di gruppo, effet­tuati dai maschietti presumo per non sfigurare agli occhi del «ses­so debole » (innestando così di fat­to un’altra manifestazione di be­cero machismo!). Una seconda ragione è che le donne si caratte­rizzano per una maggiore sensi­bilità verso le decisioni dei consu­matori finali, essendo esse stesse i principali acquirenti dei prodot­ti di consumo, a causa delle (o gra­zie alle?) loro incombenze fami­liari. Mi chiedo: ma la presenza in consiglio non dovrebbe con­durre fatalmente ad allontanare le donne, quantomeno in parte, dalla loro casetta visti i gravosi im­pegni consiliari? E poi, a cosa ser­vono tutte quelle diavolerie quali i focus group, le indagini di mer­cato, le interviste ai consumatori e quant’altro? Temo che si an­nuncino tempi duri per gli esper­ti di marketing. Infine, le donne sembrano essere più avverse al ri­schio. Peccato che l’avversione al rischio non necessariamente sia ben vista dai legittimi proprie­tari delle aziende, gli azionisti. Se questi ultimi fossero così avversi al rischio nei loro investimenti, probabilmente non avrebbero in­vestito in titoli azionari, ma in ti­toli di Stato. O, peggio, molti im­pre­nditori non avrebbero comin­ciato le loro avventure imprendi­toriali. Cosa può accadere quando si costringono le aziende a coopta­re un numero predefinito di don­ne? Almeno due conseguenze ne­gative: 1) non necessaria­mente viene scelto il me­glio. Il timore fon­dato è che si faccia salire a bordo donne parenti o co­munque vici­ne all’azioni­sta di riferi­mento o pro­fessioniste di secondo livel­lo. Con il risul­tato di perdere in indipenden­za e in profes­sionalità del consiglio stes­so; 2) che le donne coopta­te controvo­glia dalla socie­tà possono in­correre in una reazione di emarginazio­ne all’interno del consiglio, proprio per­ché frutto di imposizione esterna e non di libera scel­ta. C’è già una discreta evidenza in tal senso nei paesi del Nord Europa. Più in generale, comunque, non se ne può più dell’agire politi­camente corretto, di comporta­menti equi e sostenibili (per la legge in questione importati dal­la politicamente correttissima e noiosissima Norvegia). Ma soprattutto non se ne può più di governi che interferiscono nelle libere scelte delle aziende private, imponendo loro la mano benevola del tutore che sa cosa è bene e cosa è male per le aziende. Non so a voi, ma a me sfugge il motivo per cui lo Stato o l’Ue deb­ba dirmi che per il bene della mia azienda io devo inserire in consi­glio di amministrazione un certo numero di donne. Attenzione: la signora Viviane Reding, commissaria europea al­la giustizia, lo scorso marzo - ma è purtroppo tornata alla carica in questi giorni-ha ammonito l’Eu­ropa per non aver imposto i ne­cessari provvedimenti nazionali che conducano a quello che, a suo intelligentissimo dire, è un si­gnificativo equilibrio: almeno un 40 per cento di presenza per il sesso femminile. Chissà perché poi 40 per cento. Ma le donne non erano la mag­gioranza su questo insostenibile pianeta? E allora facciamo ses­santa. O anche più. Si accomodi­no signori, chi offre di più? *Preside Facoltà di Economia Università Lum «Jean Monnet»