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 2012  settembre 09 Domenica calendario

GUSTI, ABITUDINI E CODICI SEGRETI. QUELLO CHE I RISTORANTI SANNO DI NOI E

voi chi siete, un «fom» o un «hwc»? Se non lo sapete domandatelo al cameriere che vi sta servendo la cena. O perlomeno fatelo se siete in uno dei ristoranti dei quali il New York Times ha appena svelato il sistema di codifica dei clienti: «fom», per esempio, sta per «friend of manager» e indica che siete amici del proprietario, dunque meritevoli di un occhio di riguardo. Mai però quanto lo sareste se foste un «px», «person extraordinaire», o addirittura un «nr», nome in codice per «never refuse», uno a cui non dare mai un no come risposta. «Hwc» sta per «handle with care», maneggiare con cura, e non è un segnale di ottima reputazione: tre lettere che sarebbe meglio non vedere accanto al proprio nome sbirciando sul computer del personale di sala mentre sta controllando la nostra ordinazione.
Difficili da decifrare per i profani ma non per gli addetti ai lavori, queste sigle — devotamente annotate e conservate — sono il risultato di un paziente lavoro di osservazione del cliente, di cui — dicono chef e gestori — più si sa, meglio è. Obiettivo dichiarato, oltre che mettere in guardia il personale di fronte ad avventori «sensibili», è rendere il servizio sempre più su misura. Ma ora grazie ad app, email e sistemi di prenotazione digitale — su tutti OpenTable, mega piattaforma che permette di assicurarsi un tavolo con un clic sullo smartphone — i ristoranti americani sono in grado di immagazzinare facilmente una enorme quantità di dati e, nel caso di grandi catene o locali «gemellati», di scambiarseli tra loro. E senza che i clienti lo sappiano.
Nei database c’è di tutto: indirizzi, telefoni, gusti, abitudini, esigenze particolari come intolleranze alimentari o semplici preferenze. Perché a tavola ognuno ha le sue: Tim Zagat, per esempio ama mangiare la zuppa servita in una tazza e bere il tè freddo in un bicchiere largo con molto ghiaccio e succo di mirtillo. Facile che i ristoratori lo sappiano e si passino la voce visto che Tim, da trent’anni, è autore con la moglie Nina della guida più letta ai ristoranti della Grande Mela: stupisce di più se i camerieri, per dirne una, conoscono a memoria i gusti di Arnie Tannen, consulente sanitaria di Brooklyn: solo tovaglioli neri (fanno meno pelucchi) e nel cestino solo la parte finale del pane. L’anno scorso, per il suo 68esimo compleanno, Arnie si è vista portare un piatto di patatine fritte: non le aveva ordinate ma il cameriere sapeva già che sono il suo piatto preferito.
Bello, ma il rischio di sentirsi schedati c’è e può causare un effetto boomerang. «Il confine si passa quando la cura per l’ospitalità diventa forzatura, e il cliente se ne accorge», commenta Emanuele Scarello, chef del ristorante Agli Amici di Udine, stellato Michelin. Per lui niente «schedature» ma molta memoria fotografica: «Quando un cliente torna per la terza volta è giusto sapere già se vuole l’acqua gassata o naturale o se gli piace trovare una rosa sul tavolo: bisogna fare attenzione e ricordare. Ci aiutiamo tenendo i fogli su cui scriviamo le comande, così possiamo accontentare chi torna e chiede di riassaggiare un piatto come l’aveva mangiato la volta precedente».
Nessuna banca dati al d’O di Cornaredo: «Schedare i clienti è illegale» spiega lo chef Davide Oldani. Che però considera fondamentali l’attenzione e il rispetto per le abitudini dei suoi avventori: «Non è un caso se uno dei primi a rendersi conto dell’importanza di una certa cultura dell’accoglienza è stato molti anni fa Frédy Girardet, lo chef svizzero considerato uno dei più grandi al mondo». Un dubbio: non sarà che, prevenuti in ogni nostro desiderio, finiremo per mangiare sempre gli stessi piatti senza mai allargare gli orizzonti culinari? «Nel nostro ristorante — continua Oldani — cuciniamo seguendo le stagioni e questo previene il rischio di trovarsi in tavola sempre lo stesso menù». Meglio cambiare, insomma. E soprattutto evitare nomi in codice: «I clienti — conclude lo chef — sono tutti sullo stesso livello e per tutti ci impegniamo a lavorare bene». Niente «fom» e «hwc».
Giulia Ziino