Giuseppe Sarcina, Corriere della Sera 09/09/2012, 9 settembre 2012
ECCO LO STATO DELLA DISUNIONE. GLI SQUILIBRI CHE MINANO LA UE —
EUROPAX
Per rispondere ai «fenomeni di rigetto», ai «populismi», l’Europa dovrebbe ripartire addirittura dal Campidoglio, dallo spirito del ’57. La Comunità delle origini, quella dei francesi Jean Monnet e Robert Schuman, di Alcide De Gasperi e Konrad Adenauer. Ormai quei nomi (insieme naturalmente a quello di Altiero Spinelli) formano una specie di rosario nelle mani dei ferventi seguaci di un’Europa federale o almeno un po’ più unita. In definitiva la proposta di Mario Monti, avanzata al seminario Ambrosetti di Cernobbio, confluisce in questa corrente di pensiero: ritorniamo a Roma in quella stessa sala dove il 25 marzo 1957 i sei Paesi fondatori (Germania, Francia, Italia, Olanda, Belgio e Lussemburgo) firmarono il Trattato Cee.
Ma se davvero il vertice straordinario ci sarà, i leader europei, esaurito in cinque minuti il compito di buttare giù una bella dichiarazione di principio, si troveranno davanti quel compito che finora hanno dovuto accantonare per far fronte alle mille emergenze della crisi. È una questione logica prima ancora che politica: per prendere le distanze da qualcosa, bisogna innanzitutto definire (o ridefinire) la propria identità. E può essere un esercizio più produttivo entrare nel tema con l’aiuto di un «outsider» come il britannico Niall Ferguson, 48 anni, professore di storia all’università americana di Harvard. Difficile immaginare un personaggio più lontano dagli ambienti europeisti ortodossi (il filone Monnet-Schuman-Delors, cui appartiene a pieno titolo anche Mario Monti). Anche se a Cernobbio, Ferguson si è prodotto in una sorprendente retromarcia. Per decenni ha sostenuto (e scritto un po’ ovunque) che la moneta unica avrebbe destabilizzato l’Unione europea. Profetico, a rileggerlo oggi, un articolo pubblicato nel 2000 sulla rivista Foreign affairs. «Forse i partecipanti del forum Ambrosetti pensavano che sarei venuto qui a dire: avete visto? Ve l’avevo detto». Invece Ferguson sostiene che l’euro «non va smantellato», perché «avrebbe un costo pesantissimo: un disastro per tutti, Germania compresa». Non si è dunque convertito al rosario europeista. Anzi ritiene che l’eredità culturale di Monnet-Schuman-Delors sia ormai inadeguata.
Seguiamo il suo ragionamento. La storia dell’Unione europea si può dividere in tre epoche. Il primo paneuropeismo risale agli anni Venti e Trenta, ma fu spazzato via dal conflitto scatenato dal nazismo. Amen. Poi venne l’era Monnet-Schuman, appunto, fondata sulla convinzione che bisognasse mettere in comune le risorse economiche (carbone e acciaio) per costruire l’unità politica. Infine ecco gli anni Ottanta del presidente della Commissione Jacques Delors, il suo «Atto unico», il piano per l’integrazione del mercato unico e quindi il tracciato per arrivare alla moneta unica.
Tutto ciò, secondo Ferguson, non poteva che finire in un fallimento colossale, poiché gli Stati non hanno rinunciato (e non potevano farlo per definizione) alla sovranità fiscale e alla politica economica. Lo faranno adesso? Non basterà: gli squilibri tra i Paesi sono aumentati, invece di diminuire. E un’Unione troppo sbilanciata non può reggere.
Fin qui la parte polemica. Ma lo storico scozzese (sposato con la scrittrice attivista Ayaan Hirsi Ali) ha pronto se non una vera proposta, almeno un metodo. Ieri lo ha illustrato con una serie di tabelle piuttosto sconfortanti. Lo sbilanciamento tra Nord e Sud, per cominciare, non emerge solo dai numeri dell’economia, con i quali un po’ tutti abbiamo ormai familiarizzato (debito, deficit, disoccupazione). Ci sono altri parametri più sottili, a volte difficilmente misurabili, ma decisivi per la qualità della vita pubblica e privata. Ferguson ne elenca 15, pescando nel Rapporto sulla competitività globale del «World economic Forum» (edizione 2011). Qualche esempio: la tutela dei diritti di proprietà. Il Paese leader nel mondo è europeo, ma è la Finlandia; la Germania è al 18° posto; l’Italia al 71°; il Portogallo al 48° e la Grecia al 56°. Ancora, l’etica aziendale (tema sensibile per l’audience di Cernobbio): prima piazza mondiale per la Danimarca; Germania sul 14° gradino; Italia 79°; Portogallo 50° e Grecia 125°. E così via, passando dalla qualità dei revisori dei conti fino all’affidabilità della polizia.
Da qui Ferguson arriva alla conclusione: è inutile perseguire un’artificiale integrazione politica se i Paesi non sono in grado di uniformare gli standard base. L’Europa, quindi, dovrebbe adottare il metodo Draghi, ma allargato anche ad altri settori. Le istituzioni Ue dovrebbero essere guidate da politici con grande capacità unificatrice, in grado di livellare le differenze territoriali. Ferguson scarta i pionieri del Dopoguerra e propone come esempi Camillo Benso di Cavour o il cancelliere Otto von Bismarck: i costruttori di Italia e Germania. I fondi e gli aiuti ai Paesi membri dovrebbero essere distribuiti solo a fronte di progressi sulla contabilità di bilancio, come sull’efficienza dei tribunali civili o sulla capacità di garantire i piccoli azionisti.
In fondo, e non dispiaccia a Ferguson, l’Unione europea ha già sperimentato qualcosa di molto simile. Tutti i Paesi che sono entrati nel club hanno dovuto superare un esame severo, almeno sulla carta (dagli standard democratici alla pulizia dei mattatoi). L’euroscettico britannico, parzialmente convertito, suggerisce di ricominciare da lì.
Giuseppe Sarcina