Stefano Bartezzaghi, la Repubblica 9/9/2012, 9 settembre 2012
È anche ritornata fuori la battuta di John Maynard Keynes: «Nel lungo periodo siamo tutti morti »
È anche ritornata fuori la battuta di John Maynard Keynes: «Nel lungo periodo siamo tutti morti ». A questo proposito i punti su cui riflettere sono due. Il primo è: il successo del pernicioso sense of humour degli economisti sarà fra gli effetti o casomai fra le cause della crisi globale? Il secondo è: Al punto in cui si è, il lungo termine arriverà mai? Non staremo al contrario morendo dell’ansia da breve termine? In uno o nell’altro caso, si tratta pur sempre di «deadline» e allora viene anche da commiserare il fatto che la nostra nuova lingua, l’inglese ovvero l’angloide, sia tanto meno scaramantico del caro buon vecchio italiano. «Chi va piano va sano e va lontano, chi va Forte va alla Morte», ammonivano peraltro le rime e il cambio d’iniziale delle sagge nonne lombarde. L’elogio della prudenza non solo stradale, in quel circondario, affondava radici nei personaggi manzoniani dell’«adelante » e «presto» e però «con juicio» e del «Troncare e sopire» (e di don Abbondio è far brutti incontri per strada e maledire la fretta dei giovani, mentre proprio un fatto di precedenza saltata porta all’omicidio il futuro Fra Cristoforo). «Adagio!», ammoniva poi il Prodi rifatto dal maggiore di tutti i Guzzanti; mentre solo un anno fa Il Sole 24 ore implorava, a caratteri da catastrofe: «Fate presto!». Delle indicazioni del buon senso padano devono aver avuto recente sentore anche a Lombard Street, la storica via londinese delle banche e della finanza. Il magazine Prospect ha infatti appena censito con acribia «I pericoli della fretta»: o meglio di ciò che lì viene chiamato «short-termism» e che potremmo rendere come «sindrome da breve termine» ovvero (e, appunto, in breve) «brevismo». Non poteva mancare, di questi tempi, l’intervento dei neuroscienziati che attestano che le zone del cervello che si attivano per la pazienza sono diverse da quelle che si attivano per l’impazienza: consolante «scientific evidence» del fatto che chi ha fretta ce l’ha, a differenza di chi non ce l’ha. Più sagace l’osservazione per cui il continuo monitoraggio dell’andamento dei propri investimenti, reso possibile dalla tecnologia, mette in allarme gli investitori. Il brevismo è appunto questo: ansia dell’esito, impazienza dell’«evidenza », pretesa dell’immediata verifica. Un malato di influenza, almeno se maggiorenne, dovrebbe sapere che in tre giorni la malattia scomparirà e predisporsi a essere (lo dice la parola stessa) paziente; ma se il malato passerà invece quei tre giorni a misurarsi la temperatura ogni cinque minuti avrà l’idea di aver contratto un morbo incurabile. Gli investitori finanziari sono pazienti impazienti e si misurano la febbre ogni minuto (in un delirio chiamato, in modo appropriatamente allucinato, «tempo reale»). Allarmati perché non si riduce subito, finiscono per abbandonare gli investimenti quando conviene meno, o fare mosse altrettanto sventate che equivalgono a intossicarsi di farmaci per combattere un’influenza e contrarre così un’ulcera, o peggio. Lo si scriva sui muri delle facoltà di economia, traducendo il proverbio in linguaggio appropriatamente settoriale: la fretta è una cattiva consulente. Ma anche coloro per cui l’inglese «future» vuole ancora dire «futuro» (molto prima di essere il nome di un «prodotto» finanziario di preoccupante astrattezza) farebbero meglio a porsi il problema del brevismo. Mille gare di velocità si svolgono attorno a noi: palestre, linee ferroviarie, connessioni Internet, metodi di apprendimento e lettura, centri assistenza, ristoranti, diete tutti promettono i benefici della rapidità. Rapidità che sarà pure una bella cosa, un «valore», come ormai tocca dire. Ma lo è molto meno quando implica la fretta. La implica quasi sempre. Per fare l’esempio più a portata di mano, la tecnologia della scrittura ha accelerato tutte le fasi di redazione, trasmissione, pubblicazione di un testo, a costo di una miniaturizzazione degli strumenti che rende facilissima la produzione di errori e difficilissima la loro correzione. Li si ritroverà stampati irrimediabilmente sulla pagina e la voce della nonna risuonerà dalle più quiete lande della memoria: «Presto e bene, non si conviene». Ma poi fossero solo i lapsus e i refusi! Questi pesano come decagrammi in una complessione obesa. I guasti del brevismo sono assai più profondi, poiché finiscono per portare a quel punto critico e cruciale in cui il quantitativo diviene qualitativo. Per l’editoria libraria, il passaggio ai rendiconti trimestrali ha portato l’ansia da prestazione e l’angoscia del respiro breve (e brevista) a livelli incompatibili con il ragionamento. Come ci sono investimenti che a breve termine non possono incominciare a essere fruttuosi, così in ogni settore ci sono importanti risultati che implicano tempi lunghi, sedimentazioni, ripensamenti: dal trattato di filosofia alla stagionatura dei legni pregiati, dal ragù napoletano all’inchiesta giornalistica approfondita, dalla laurea in cardiochirurgia all’affinamento del barolo. Di un eventuale mondo fatto (esclusivamente) di tweet, birrette, trafiletti e sveltine a preoccupare non è il decremento in termini di estetica ed edonismo (che pure): a preoccupare è l’affanno. L’«effimero» di Nicolini, che tanto scandalizzava i babbioni, era «cool», estivo e fresco: il contrario dell’affanno, giacché non pretendeva di divenire un metodo e un metro di giudizio generale. Il «subito!» reclamato dai bambini capricciosi a suon di urla (come è noto, almeno ai genitori resi schiavi dalla propria stessa indulgenza) non basta mai. Il maestro diceva: Non è mai troppo tardi. Gli alllievi rispondono: Non è mai abbastanza presto. Il brevismo è quindi il nesso che tiene assieme l’isteria dei mercati finanziari e quella degli automobilisti al semaforo rosso, la smania dei bambini capricciosi e la noncuranza con cui i ristrutturatori aziendali sottodimensionano ogni risorsa possibile (tranne il loro stipendio), per poi battezzare la loro opera «ottimizzazione». L’essenza del brevismo è una petizione di principio: «Qualsiasi cosa, per definizione, può essere più veloce e costare meno, o rendere di più». Ma dato che il principio si può applicare ricorsivamente, il mondo, specie quello delle professioni, è nella posizione di un Usain Bolt che tagliando il filo di lana di un suo ennesimo primato mondiale si senta bofonchiare, da un allenatore cronometrista che mastica chewing-gum ed è in personale sovrappeso: «puoi fare di meglio». La velocità si è qui trasformata in fretta, la quantità è divenuta qualità, il meglio è rovesciato nel peggio. Se il brevismo, quando è applicato come regola universale, fa tanti danni, perché gli apologeti del brevismo tardano tanto ad accorgersene? Proprio loro, che sono così svelti? Gli automobilisti più veloci sono quelli che fanno a meno del codice della strada: allo stesso modo, il brevismo fa a meno della cultura. Che non è certo un codice, né è un manierato elogio della lentezza, ma che solo tramite la lentezza viene acquisita e solo si produce tramite la lenta formazione e sedimentazione delle idee. Disporre di molta memoria significa, a questo mondo, sapere di avere molte esperienze alle spalle; per i brevisti significa poter fare più cose con il computer di questa generazione che con quello passato, che andrà dunque buttato via. La cultura non è un mero assieme di dati, non può essere oggetto di briefing né soggetto di performance da primato cronometrico. Si limita a ricordarci che a lungo termine Keynes sarà appunto morto, ma noi, almeno per il momento, no. E se molte famiglie dei ricchi durano due o tre generazioni, la specie ha certo ambizioni che vanno un po’ più in là. *** PAOLO LEGRENZI Per il Nobel Kahneman siamo affetti da “dimenticanza delle durate” Ma un curioso esperimento degli anni ’60 dimostra che l’attesa paga Anni fa mi capitò, assieme a un industriale diTreviso, di perdere un volo per Roma, e non era colpa nostra. Dato che stavo scrivendo un libretto sulla Felicità, cercai di mettermi alla prova. Gli dissi: provi a immaginarsi come si sentirà di qui a un anno, o come si sente oggi se ripensa ai voli persi più di un anno fa. Era davvero così importante arrivare puntali a Roma? Sul momento il suggerimento non funzionò, era troppo arrabbiato. In seguito mi ringraziò e mi spedì un regalo. L’industriale aveva scoperto la forza del “breve termine” ed anche l’altra faccia della medaglia, e cioè la difficoltà a considerare i tempi lunghi. Ed Diener, professore all’Università del-l’Illinois, ha tradotto queste intuizioni in un esperimento. Diener costruì diverse descrizioni di una certa Jen, una donna mai sposata e senza figli. Jen aveva avuto una vita molto felice. Purtroppo era morta in un incidente automobilistico. Le versioni differivano per la durata della vita, 30 oppure 60 anni, e per la felicità. C’erano altre due storie in cui Jen aveva vissuto 5 anni in più (35 oppure 65 anni), ma non era stata bene in questi ultimi 5 anni. Diener presentò a gruppi diversi una delle quattro versioni della storia. Infine domandò: «Quanta felicità o infelicità Jen ha provato nel corso della sua vita?». Potreste supporre che il giudizio si basi sulla durata complessiva della vita di una persona. In tal caso la Jen di 60 anni dovrebbe aver provato più felicità di quella di 30, e i cinque anni infelici non dovrebbero aver pesato più di tanto. Al contrario, le risposte mostrano che essere stati felici per 30 oppure 60 anni non fa differenza, mentre i 5 anni finali hanno un peso sproporzionato rispetto ai 30 o ai 60 precedenti. Le persone sono spesso vittime inconsapevoli di quel meccanismo che il premio Nobel dell’economia Daniel Kahneman chiama “dimenticanza delle durate”. La tendenza a trascurare le durate non riguarda solo il passato, come nel caso di Diener, ma anche il futuro. Walter Mischel lo dimostrò con un classico esperimento. Mischel filmava, a loro insaputa, bambini di quattro anni dopo aver presentato loro un marshmallow, una specie di dolcetto gommoso e spugnoso, di colore bianco. Veniva detto loro: «Puoi mangiarne uno subito, oppure puoi aspettare qualche minuto e, quando tornerò, potrai averne due». Se provate a guardare in rete i vari filmati delle repliche dell’esperimento (impagabile è: KidsMarshmallow Experiment su YouTube), potete vedere la lotta che i bambini fanno con se stessi pur di resistere. Chi guarda altrove, chi si copre gli occhi, chi batte sul tavolino con le dita, o muove le gambe, tutto per cercare di distrarsi dalla tentazione posta davanti ai loro occhi. Il regista Sergio Leone, nel film C’era una volta in America, fa una sorta di citazione dell’esperimento, mostrando un bambino che deve aspettare una bambina per darle una meringa, il prezzo richiesto dalla bambina per tirare su le gonne. Il bambino non resiste, intacca poco alla volta la meringa e, infine, il desiderio gastronomico prevale definitivamente sulla fantasia sessuale. Michel continuò a seguire i 653 bambini che avevano partecipato all’esperimento nel 1968. Scoprì che i circa duecento bambini “pazienti” – quelli che avevano preso in considerazione il beneficio futuro, resistito alla tentazione, e ottenuto così due dolci – fecero in seguito meglio negli studi e sul lavoro. Resistere alle tentazioni e sapersi comportare tenendo presenti i tempi lunghi è una dote che a quanto pare ci differenzia fin da piccoli e si rivela vantaggiosa nella società contemporanea.