Cloe Piccoli, la Repubblica 9/9/2012, 9 settembre 2012
ROMA È magnetico Joseph Kosuth, ha un modo di parlare incalzante, assertivo, ironico, i suoi occhi guizzano dietro le lenti spesse mentre racconta la sua vita nell’arte e per l’arte
ROMA È magnetico Joseph Kosuth, ha un modo di parlare incalzante, assertivo, ironico, i suoi occhi guizzano dietro le lenti spesse mentre racconta la sua vita nell’arte e per l’arte. Le sue opere distillano concetti, idee, pensieri, di filosofi, scrittori, poeti e antropologi. E lui l’artista americano che a ventiquattro anni, nel 1969, ha scritto quel piccolo saggio intitolato Art After Philosophy che ha cambiato radicalmente le carte in tavola, è considerato il padre dell’arte concettuale. Da allora le sue opere costellano i luoghi simbolici del mondo. Al Louvre di Parigi, ad esempio, una sua installazione del 2010 Ni apparence ni illusion, che nei prossimi mesi verrà reinstallata in maniera permanente, ha accompagnato e illuminato con una scritta al neon il cammino lungo mura medievali del museo dalla cripta al torrione. Quest’opera, che cita Friedrich Nietzsche, conduceva in un viaggio affascinante alle fondamenta del museo. Anche in Italia Kosuth ha realizzato opere straordinarie collegandosi a storie, luoghi e culture, dall’installazione a piazza del Plebiscito a Napoli, a quella all’Isola degli Armeni in Laguna, fino al neon che scandisce la facciata della Fondazione Querini Stampalia di Venezia. L’Italia è uno dei luoghi che ama di più, ha vissuto vent’anni a Roma, lavorando in studi da togliere il fiato, prima sull’Isola Tiberina e poi al Ghetto, proprio di fronte alla Sinagoga. L’abbiamo incontrato qui mentre organizzava il trasloco per Londra, dove si è appena trasferito. La facciata della Sinagoga sembra entrare in studio dalle grandi vetrate. «Peccato non essere ebreo», ride. «Tutti i miei eroi intellettuali lo sono, da Lenny Bernstein a Wittgenstein, a Eisenstein, a Gertrude Stein, e potrei continuare nella lista degli Stein». Ride di nuovo prima di iniziare a distillare idee sul fatto che l’arte non possa che essere concettuale. I suoi eroi sono Duchamp e Ad Reinhardt. Per lui il primo ha reso possibile l’arte concettuale, il secondo ha realizzato gli ultimi dipinti possibili della storia dell’arte. Punto. Lapidario e radicale, alterna pensieri sull’arte e storie di vita quotidiana. Parla inglese americano e nonostante sia qui da vent’anni non parla una parola d’italiano. Poi riattacca con gli “Stein”: «In particolare Bernstein aveva quel fascino speciale dell’ebreo newyorchese. Se sei un new yorker, come sono io, ti sentirai sempre un po’ ebreo perché fa parte della cultura di quella città, e la rende un posto speciale. Ho uno studio a New York e ci torno spesso, mi piace. Ma adoro l’Europa, vivo qui da vent’anni. Per gli europei sono un tipico americano, per gli americani sono molto europeo ». Ora Kosuth sta lavorando a Freud, Wittgenstein and Musil, la personale che inaugura il 12 settembre nella sua galleria storica di New York Leo Castelli, mentre il 2 ottobre in occasione della Biennale di Shanghai realizzerà un’installazione con una scritta al neon che salirà a spirale nella ciminiera dell’ex fabbrica dove si terrà la mostra. È l’ultimo capitolo di una storia artistica iniziata a New York nel 1965. Kosuth ci arriva da Toledo, Ohio. «A quell’epoca non avevo un soldo, ma sapevo cosa volevo. Passavo molto tempo con Bobby De Niro, il mio migliore amico, lui voleva fare il regista e scriveva, stava scrivendo un testo che poi, secondo me, in qualche modo è entrato in Taxi Driver. È in quel periodo che Ad Reinhardt venne a tenere una conferenza nella nostra scuola. Era una scuola così conservatrice che tutti gli studenti, quel giorno, uno dopo l’altro, hanno lasciato l’aula della conferenza. Siamo rimasti solo in due ad ascoltare. A quel punto Ad Reinhardt che avrebbe dovuto restare con noi tutto il giorno ci disse: “Ok ragazzi, ora andiamo a fare quattro passi”. Abbiamo parlato con lui tutto il giorno. Quell’incontro mi ha cambiato la vita. Subito dopo con il suo numero di telefono in tasca sono partito per Parigi. In quel momento era il mio più grande desiderio vedere l’Europa». Parigi è una sferzata d’energia, Kosuth ci arriva con una borsa di studio, visita i musei, conosce gli artisti, frequenta i caffè, finalmente si confronta con le avanguardie storiche e con la città da dove viene Duchamp. E un giorno per caso lo incontra. «Avevo uno studio all’American Center in Boulevard Raspail, sotto c’era un grande spazio dove Jean-Jaques Lebel faceva uno dei suoi festival della libera espressione, una specie di happening. Ho sentito rumore di gente e così sono sceso. C’era una Volkswagen coperta di spaghetti, su cui Laurence Ferlinghetti declamava una delle sue poesie. A quel tempo ero terribile. Quindi me ne stavo lì in piedi a fare commenti ironici, e a dire i miei dubbi sulla poesia, che poi erano dubbi sulla mia stessa pratica artistica, e c’era questo vecchio signore di fianco a me che ha iniziato a rispondermi e a fare a sua volta commenti. La gente intorno si è messa a ridere di noi due che stavamo duellando. Ferlinghetti ci ha guardato male perché distraevamo i presenti. Più tardi il vecchio signore mi disse “piacere”, mi strinse la mano e andò via. Solo dopo mi dissero “ma sai chi era quello? Duchamp”». Dopo pochi mesi Kosuth torna a New York, De Niro gli telefona e gli dice che le cose vanno meglio e che deve assolutamente tornare. «Dunque sono tornato, e ho chiamato l’unico numero che avevo oltre a quello di Bob: Ad Reinhardt. Mi interessava solo l’arte. L’ho seguito, l’ho ascoltato, un giorno siamo andati a pranzo con Mark Rothko, e loro hanno avuto un’intensa discussione sulla pittura. Ero affascinato». «Per guadagnare qualche soldo — continua a raccontare l’artista — ma restare nel campo dell’arte avevo pensato di aprire uno spazio con mio cugino. Lui voleva fare una galleria di poster, ma io non ci pensavo nemmeno, volevo fare qualcosa d’importante, quindi abbiamo aperto uno spazio che si chiamava Museum of Normal Art. Così ho avuto l’occasione di organizzare la mia prima mostra e di invitare artisti che avrei sempre voluto conoscere. Ho chiesto a ognuno di venire e esporre il suo libro favorito. È stato magnifico». I libri per Kosuth sono sempre stati fondamentali anche come oggetto. I suoi libri e cataloghi sono elegantissimi, rigorosi, bianchi, neri, grigi, a volte argento, minuscoli o del tutto fuori scala, ogni opera è accompagnata da un libro. Libri come passione, arte come linguaggio, scrittura, concetto. Ma il business della galleria non funziona. E quindi per vivere a Kosuth non resta che arrendersi all’insegnamento. All’inizio lo detesta, mentre più avanti ne farà una pratica importante per il suo stesso lavoro tanto che, ormai famoso, ha continuato a insegnare in università e accademie di mezzo mondo, incluso in Italia negli ultimi anni lo Iuav di Venezia. «La questione paradossale è che dovevo insegnare pittura! Era una tortura! Io la pittura! Ovviamente non credevo nella pittura. Gli studenti avevano ventidue anni come me, e arrivavano con la fotografia della nonna e volevano davvero farle un ritratto per il giorno del suo compleanno! Se lo immagina? Allora facevo delle cose strane: tipo andare a prendere dal droghiere i sacchetti di carta marrone, quelli per la spesa e li dipingevamo come fossero nature morte. Ma non potevo far dipingere i sacchetti sempre nello stesso modo per tutto il corso. Dunque ho ricominciato da Manet, abbiamo letto tutto su Manet, idee e visioni, e a quel punto gli studenti dovevano dipingere i sacchetti alla maniera di Manet. E poi lo abbiamo fatto con molti altri pittori storici, sempre gli stessi sacchetti marroni ma dipinti alla maniera di questo e quell’altro artista. L’obiettivo era osservare la differenza di idee e processi. Ma non andava bene ancora. A scuola è arrivato il diktat: “Devono fare la copia dal vero”». Incredulo ancora oggi. Ma Kosuth non è un tipo che si lascia scoraggiare. «Allora ho comprato tutto ciò che ci vuole per una natura morta: banane, frutta, bottiglie, quel genere di cose insomma, e ho creato un cerchio con quaranta cavalletti per quaranta studenti. Funzionava così: il primo copiava dal vero la composizione, il secondo copiava dal primo, il terzo dal secondo, e così via. Al sesto studente la natura morta era già un Kandinsky». È il 1969 e Kosuth fa la sua prima mostra da Leo Castelli. Il resto è storia. Quella dell’arte concettuale, degli inviti a Documenta a Kassel, alle Biennali di Venezia, di mostre e opere storiche. «Per me era un cambio di prospettiva radicale. Penso che abbiamo spostato la questione in un’altra dimensione. Era già allora la fine dell’Espressionismo! Una cattiva notizia per Baselitz e Schnabel». Sorride sornione quest’artista che non manca mai una sferzata. «E non importa quante decadi ci vorranno perché questo pensiero si affermi, sono molto felice di aver partecipato».