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 2012  settembre 09 Domenica calendario

Nel 1933 il giudice Woolsey assolve l’Ulisse di Joyce dall’accusa di pornografia, con una motivazione che sembrerebbe attagliarsi anche al caso di Henry Miller: «Joyce», argomenta Woolsey, «è stato leale verso la propria tecnica e non si è tirato indietro di fronte alle sue ineludibili implicazioni», ivi compreso «l’utilizzo di parole che vengono in genere considerate scurrili »

Nel 1933 il giudice Woolsey assolve l’Ulisse di Joyce dall’accusa di pornografia, con una motivazione che sembrerebbe attagliarsi anche al caso di Henry Miller: «Joyce», argomenta Woolsey, «è stato leale verso la propria tecnica e non si è tirato indietro di fronte alle sue ineludibili implicazioni», ivi compreso «l’utilizzo di parole che vengono in genere considerate scurrili ». Eppure quando l’anno dopo esce a Parigi, in inglese, il il divieto di importazione negli Usa è netto; ancora nel 1953 la pubblicazione in patria è giudicata oscena; bisognerà aspettare il 1961 (sull’onda dell’assoluzione dell’Amante in base alla nuova e liberale legge inglese del 1959) perché la Grove Press, dopo difficoltà iniziali, possa distribuire il libro. In Italia le cose vanno anche peggio: nel 1962 Feltrinelli pubblica il Bellinzona con l’avvertenza «esclusivamente dedicato al mercato estero, vietata l’esportazione e la vendita in Italia». Evidentemente è un escamotage: stoccato nei magazzini della Gondrand a Basilea, il libro viene trasportato in segreto alla Maison du Livre Italien di Nizza e da lì, avventurosamente nascosto nei doppi fondi di un’automobile, passa clandestinamente in Italia. Venduto sottobanco, con la fama di libro “infernale” e proibito per eccellenza. Solo nel 1967 il libro sarà ufficialmente pubblicato in Italia, e anche allora avrà il privilegio di una patetica denuncia presso il tribunale di Lodi. Letto ora, a cinquant’anni dal coraggioso gesto di Giangiacomo, il libro sorprende per quanto poco sesso c’è dentro, ne ricordavamo molto di più. Con le performance acrobatiche che si leggono in giro, non turberebbe nemmeno una monaca di clausura. Né pare nuovissimo il proposito di verità radicale, la promessa di metterci dentro «tutto quello che negli altri libri è omesso». È un proposito vecchio di secoli, si può risalire a Restif de la Bretonne e a Rousseau, per non parlare di Montaigne. Quanto alla rappresentazione realistica degli organi sessuali, il pene di Dürer nell’autoritratto di Weimar (ricordato da Praz nella prefazione al Tropico del ’62) e la vagina in primo piano nell’Origine del mondo di Courbet avevano già raggiunto un limite insuperabile. Fino al 1968 la censura ha potuto sbandierare come indicibili i dettagli del sesso, che erano metafora della distinzione tra privato e pubblico; poi (almeno nel mainstream della cultura occidentale) quella distinzione si è andata perdendo in un’unica onda di spettacolarizzazione consumista, e alla censura come divieto si è sostituita la censura come rumore che confonde e toglie senso. Ancora nel ’62 spiriti liberi come Praz vedevano in Miller un tormento «teutonico e gotico» che forse non c’è; traducevano come disperazione d’autore un loro disagio che gli faceva sembrare macabro e insopportabile quelcheadessoèmonetacorrente:l’assenza totale di prospettive, la riduzione del sesso a dovere meccanico di prestazione, il sex appeal dell’inorganico. La nudità del Tropicoè semmai di altra specie: è la scommessa di comporre un’autobiografia senza ideali, senza esemplarità, senza introspezione e senza eventi. In tutto il libro a Miller non succede quasi niente; si limita a sbattersi di qua e di là, è un enorme orecchio che ascolta («io sono il vuoto in mezzo a voi; se me ne vado, non vi resta più vuoto in cui nuotare»). Non si riesce a ricostruire una precisa cronologia narrativa, la storia si svolge in un eterno presente punteggiato da espressioni vaghe come «era verso la fine dell’estate», «più tardi mi torna in mente», «era febbraio»; l’espediente tecnico ha una corrispondenza tematica: «il mondo intorno a me si dissolve, lasciando qua e là chiazze di tempo». La vera struttura del libro è l’enumerazione caotica, cioè l’insensatezza del mondo in cui il sesso non è che un’acme di fulminante e immotivata affermazione. Le parole che tanto avevano offeso il bigotto accusatore di Lodi («c’è l’osso nei miei venti centimetri di cazzo, ti stiro tutte le grinze della fica...») non sono che l’esito complementare dell’elenco che immediatamente le precede («sigarette Abdullah, l’adagio della Patetica, amplificatori auricolari, giarrettiere pesanti, che ore sono, fagiani dorati col ripieno di castagne...»); la posizione esistenziale di base è uno gnosticismo distruttore (simile a quello degli antichi Ofiti): «Voglio che tutto il mondo vada fuori sesto, che tutti si grattino a morte»; l’orgasmo, dice a un certo punto, è come comunicarsi, cioè inghiottire una particella di nulla che anticipi un futuro inimmaginabile. Ma la scrittura si affanna per mantenersi al di sopra delle sue possibilità, il maledettismo si svela troppo programmatico e il demonismo velleitario. Miller pensa a un libro che azzeri la cultura («questo non è un libro, è libello, calunnia, diffamazione... è un insulto prolungato, uno scaracchio in faccia all’Arte»); ma in realtà quello che leggiamo è il libro di un letterato marcio, tra Joyce e Sartre e Dostoevskij e Proust e Mann, e Rabelais e i picareschi e Petronio, e perfino Papini; il lirismo di certe descrizioni ricorda le sue abilità di pittore («Ora del crepuscolo. Blu d’India, acqua di vetro, alberi lucenti e liquescenti »). Non basta sentire il richiamo di Nietzsche, invocare l’Oltreuomo che rovesci il vecchio cristianesimo, non basta orecchiare Bataille e Caillois se poi, nel fondo, si rimane un americano puritano, vitalista e ottimista, magari un tantino evangelico («straordinario com’è facile campare, per un passero»). Whitman e Nietzsche è difficile metterli d’accordo. In tutto il libro la fedeltà alla moglie americana (che lo manteneva) è fuori discussione. Il tono febbrile non nasconde una solida salute animale. La frase famosa «non ho soldi, né risorse, né speranze, sono l’uomo più felice del mondo» è più buddista che proto- beat. La contraddizione tra intenzioni e risultati, la confusione tra presupposti culturali inconciliabili, fan sospettare che il libro sia largamente sopravvalutato. Eppure il Tropico è diventato di culto e una ragione ci sarà. Forse perché è il primo libro apertamente post-moderno, o comunque il libro che dichiara chiusa la stagione aurea del modernismo. La «formidabile troia della Martinica, bella come una pantera» non è che una citazione, e di Baudelaire appare lo «spettro prono, avvolto in bende come una mummia». Le rivoluzioni e involuzioni totalitarie sono già accadute, «dalle utopie strangolate è nato un pagliaccio». Più che disumano nel senso di Nietzsche, il Miller protagonista del libro è post-human. Se il primo libro italiano post-moderno è Fratelli d’Italiadi Arbasino, il Tropicone è stato certamente una fonte; Arbasino avrà letto Miller in inglese ben prima, ma nel ’62 l’avrà visto di sicuro nella bella traduzione di Bianciardi e la stesura finale del suo chef d’oeuvre sembra risentire di certi finali («E Borowski dice: “Partiamo tutti per Bruxelles, domattina”»). I classici diventano tali perché ammettono interpretazioni ambigue: il Tropico è una partitura bollente a sangue freddo, un’ironica presa in giro senza ironia, un surrealismo basic che dà ai lettori l’illusione di poter fare lo stesso.