Alessandro Penati, la Repubblica 8/9(2012, 8 settembre 2012
C’ERA
una volta un paradigma: per far crescere più velocemente il risparmio nel tempo si deve aumentare la quota di portafoglio investita in azioni. Le azioni sono rischiose, ma è solo una questione di orizzonte temporale: alla fine il maggior rischio è compensato da un maggior rendimento rispetto a quello di investimenti sicuri: il cosiddetto
equity premium.
C’è dunque una relazione stabile tra rendimento e quota di investimento in azioni. Questo perché la crescita del valore delle Borse riflette quella degli utili, a loro volta funzione della produttività, in aumento nel tempo grazie al progresso tecnologico.
Un
equity premium
stabile, e tale da compensare il rischio è alla base della pianificazione degli investimenti di ogni istituzione (fondi, assicurazioni, casse, fondazioni). In pratica si sceglie un benchmark, ovvero un portafoglio
di riferimento, ipotizzando per l’appunto un rapporto tra la quantità di azioni e il rendimento ottenibile. Lo stesso schema è usato per regolamentare anche i servizi di gestione offerti agli individui. Alla fine degli anni Novanta il paradigma era quasi un mito: dato che c’è un
equity premium,
si devono privilegiare le azioni per garantirsi un rendimento elevato; basta avere pazienza. Anche private equity e hedge fund hanno prosperato da metà anni Novanta, promettendo rendimenti, sostenibili però solo se regge il mito. Ma la crisi del 2008 gli ha inferto un duro colpo.
Se si considera l’intero dopoguerra, dal 1950 a oggi, il paradigma sembra reggere, anche se la misura dell’equity
premium
è inferiore a quella della mitologia: al netto dell’inflazione “
core”
(per eliminare l’effetto del prezzo del petrolio), Wall Street (al netto dei dividendi) è cresciuta a un tasso medio del 2,7% annuo, vicino alla crescita
della produttività. Ma 62 anni sono troppi per chiunque. E le fasi che il mercato azionario attraversa sono molto lunghe e diverse (vedi grafico).
Dal 1950 al 1968, il ventennio dei cambi fissi e della ricostruzione, la crescita “reale” media della Borsa è stata del 7,4%. Nel successivo ventennio, però, quello degli shock petroliferi e della crisi sociale, l’equity
premium
è sparito: bisogna aspettare il 1991 perché la Borsa torni stabilmente ai livelli del 1968 e recuperi la perdita di potere di acquisto. Superato il crash del 1987, si rivive un ventennio simile al dopoguerra: da allora fino al 2008 la Borsa torna a crescere a un tasso reale medio del 6,3%. Ma il ventennio 1988-2008, che ha coltivato il mito, è un periodo che si è definitivamente chiuso: un’eccezione, non la regola, che trova un riscontro solo nel dopoguerra, negli anni di Bretton
Woods.
Dal 2008, siamo entrati in una fase di delevering globale. Famiglie, imprese, banche e Stati nel mondo devono ridurre un indebitamento troppo elevato, che aveva alimentato la crescita delle Borse e dei prezzi degli immobili, e finanziato l’espansione di molte imprese e finanze pubbliche degli ultimi 20 anni. Smaltire così tanto debito tutto insieme richiederà molto tempo: il Giappone lo sta facendo da 22 anni e non ha ancora finito.
Durante un delevering, l’offerta complessiva di attività, per rimborsare i debiti, eccede la domanda, deprimendo i valori. Vale anche per le azioni. L’equity
premiumstabile,
sparisce; e pure la validità dei benchmark. Diventa prioritaria la capacità di gestire il rischio e di adattarsi rapidamente a condizioni di mercato mutevoli e imprevedibili. Meglio tenerne conto; e non credere
ai miti.