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 2012  settembre 07 Venerdì calendario

PRIMA DEL 9 SETTEMBRE IL RE PREPARAVA LA FUGA


Le guerre eccitano strane fiducie. A Pescara, nel 1943, erano sicuri che nessuna bomba sarebbe caduta sulla città perché lì era nato Gabriele D’Annunzio. Se lo sentì ripetere anche Dario Silingardi, modenese, classe 1921, sergente universitario dell’aviazione, quando in maggio arrivò all’aeroporto come addetto alla mensa. Veniva dalla Jugoslavia e il comandante della base, marchese Lo Bianco Marinetti, lo nominò seduta stante direttore della mensa. Le sue preoccupazioni cominciarono in estate. Gli alleati erano sbarcati in Sicilia. L’aeroporto era nel caos perché gli effettivi si erano moltiplicati: «Allievi ufficiali, genio dell’aviazione… Poi, c’era il IV stormo che stava passando dai Macchi 2002 ai Macchi 2005: i piloti arrivavano dal Sud, lasciavano i vecchi velivoli e tornavano al fronte coi nuovi», racconta Silingardi. Il suo problema era assicurare il vitto a tutti. Non sapeva che, di lì a poco, avrebbe assistito in diretta alla morte della patria, per usare una formula coniata da Ernesto Galli della Loggia. Le stranezze vere cominciarono ai primi di settembre: «Il 5 arrivarono tre signori in borghese e quattro telefoniste. La palazzina all’entrata della base, dove c’erano telefono e telegrafo, venne sgomberata. Montarono subito una grande antenna».
Il disastro militare dell’8 settembre è sempre stato, almeno parzialmente, giustificato dall’imprevisto precipitare degli eventi, con gli alleati che non vollero rimandare l’annuncio dell’armistizio come chiedevano i nostri comandi. Certo, organizzare intere armate per un traumatico cambio di fronte è cosa diversa da attrezzare una piccola base per le comunicazioni radiotelegrafiche. Ma la minima operazione del 5 settembre non collima con le ricostruzioni successive che parlano di partenza repentina dalla capitale verso l’unica località ancora non controllata né dai tedeschi né dagli anglo-americani. Insomma, è forte la sensazione che le preoccupazioni private degli alti papaveri facessero premio su quelle militari vere e proprie e che, per loro, una via di fuga sicura fosse stata preparata col dovuto anticipo.

Un armamento da burletta. Nella base di Pescara, l’8 settembre comincia con le voci confuse di chi ha saputo dell’armistizio ascoltando un’emittente francese: «Alle otto di sera, la notizia venne ripetuta dalla radio italiana e alcuni avieri cominciarono a scappare», ricorda Silingardi. Ma la sorpresa vera arriva il giorno dopo: «Verso le due e mezzo ero al posto di guardia, all’ingresso, quando arriva una macchina nera scortata da due motociclisti. L’autista mi chiese dov’era la palazzina ufficiali. Gliela indicai: distava neanche trenta metri. Subito dopo ci fu un corteo di automobili, una quindicina, berline nere e una Lancia Augusta beige e marrone da cui scese il principe di Piemonte. Dalla prima uscirono il re, in divisa, e la regina, con un abito lungo, nero; mi fece l’impressione di una donna di un altro secolo». La coppia si chiude nella palazzina dove viene raggiunta da Umberto e da altri generali. Il principe Carlo Ruspoli, compagno di corso di Umberto e ufficiale in una delle squadriglie di stanza a Pescara, si mise a fare il piantone all’ingresso: «Intanto il comandante del campo si dava da fare per organizzare la resistenza nel caso di un attacco tedesco». Qui cominciano le situazioni tragicomiche: «Perché non c’erano armi. Vennero recuperati 25 vecchi fucili dell’esercito jugoslavo ma non avevamo munizioni. Alla fine risultò che potevamo contare solo sui 21 moschetti del corpo di guardia e la rivoltella che il comandante andò a prendere infilandosela nel cinturone. In realtà, ogni tanto, qualche camionetta tedesca passava lungo la strada che bordeggiava il campo: ma andavano veloci, davano l’impressione di aver paura anche loro. Badoglio non lo vidi subito, penso che sia arrivato poco dopo. Quando, più tardi, uscì dalla palazzina indossava un doppiopetto grigio, con la camicia senza cravatta».
Ma la scena emblematica è un’altra: «A parte i pochi entrati nel comando, tutti gli altri generali si sparsero nelle aiuole: non parlavano, non erano affatto allegri, si preoccupavano perché avevano visto che il nostro armamento era da burletta. Ma era anche caldissimo. Così prestò si creò una specie di bivacco: qualcuno si tolse la giacca di ordinanza, quasi tutti levarono stivali e gambali. Il guaio fu quando si trattò di rimetterli: col caldo le gambe si erano gonfiate, e nella spedizione gli attendenti non avevano trovato posto. L’immagine di quegli altissimi ufficiali che avevano impartito ordini a migliaia di uomini che ora stavano lì sbuffando e aggrovigliandosi per rinfilarsi le calzature mi fece un grande effetto. Col senno di poi, potrei dire che vedemmo il re nudo. Poco dopo le quattro del pomeriggio qualcuno cominciò a uscire dalla palazzina. Il re aveva il viso tutto una piega. Il comandante della base gli chiese rispettosamente se aveva disposizioni da impartire. Vittorio Emanuele non gli rispose neppure. Fu un altro choc: neanche un ordine di servizio, eppure lì c’era tutto lo stato maggiore!». È la “morte della patria”, appunto, l’abbandono della capitale che può avere qualche motivazione per evitare che l’intero governo cada in mano agli ex alleati tedeschi, ma che lascia Una nazione allo sbando come si intitola un saggio di Elena Aga Rossi, edito dal Mulino, che dà un giudizio categorico: «Il modo in cui avvenne la fuga del re e del governo da Roma al momento dell’armistizio e la mancanza di leadership dimostrata in quel momento cruciale furono probabilmente determinanti nel far prevalere il voto antimonarchico al referendum del 1946… Il consenso e l’unità nazionale si spezzarono con l’8 settembre». Racconta ancora Silingardi: «Alle cinque e mezzo il re risalì in auto diretto al castello dei duchi di Bovino, vicino a Chieti, dove già si era fermato per pranzo. Gli altri si diressero verso Ortona dove avevano dato appuntamento a famiglie e attendenti. Alle sei l’aeroporto era vuoto, rimase solo Badoglio dopo aver fissato col re di imbarcarsi sulla corvetta Baionetta che veniva da Pola. Alle otto e mezzo suonò l’allarme e scappammo tutti nei campi. Chi era del Sud partì per andare verso casa, anche a piedi. Ma a Bologna i treni venivano fermati dai tedeschi e gli uomini spediti in Germania». La testimonianza di Silingardi, ora, non è diretta: «Intanto, erano successe scene tragiche sul molo di Ortona, quando era arrivata la corvetta che doveva portare il re a Brindisi. Lo seppi dagli ufficiali una decina di giorni dopo, a Francavilla al Mare. Badoglio si era rimesso la divisa, gli altri erano tutti in civile ed era scoppiato il caos perché sul Baionetta non potevano salire tutti: liti furibonde, botte con le valigie, che fra l’altro erano pesantissime perché riempite con tutto l’oro che era possibile portar via… Per molti giovani fu disgustoso vedere generali con due greche così allo sbando… Io, per fortuna non ero stato un fanatico e non andavo pazzo per le divise». C’è un ultimo ricordo di prima mano, due giorni dopo: «L’11 settembre, alle dieci, atterrò un aereo della Croce Rossa. Uscì prima un uomo in borghese, poi un aviere, infine una donna magra con due occhi neri grandissimi. Era la principessa Mafalda che tornava dai funerali di Boris di Bulgaria. I piloti della Croce Rossa si rifiutavano di proseguire per Roma perché l’aeroporto era occupato dai tedeschi. Allora si offrirono di accompagnarla in aereo il tenente Popper e il maresciallo Marinelli, ma lei rifiutò, decise di proseguire in auto. Alcuni raccontarono che disse: “Dei Savoia ne sono già scappati troppi”». I tedeschi l’avrebbero presa e rinchiusa nel lager di Buchenwald, ribattezzandola per scherno “Frau Abeba”, e sarebbe morta lì, in seguito alle ferite causate da un bombardamento alleato.