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 2012  settembre 07 Venerdì calendario

IL LEONE AFGHANO CHE SOGNAVA UN’ALTRA JIHAD


Non c’ero quando l’ammazzarono nella catapecchia di Khoja Bahuddin, quasi sfiorata dalle acque dell’Amu Darya, il fiume che traccia a Nord il confine tra la periferia estrema dell’Afghanistan e le Province meridionali dell’Unione Sovietica.
Non c’ero neanche quando, sette giorni dopo, lo seppellirono nel cimitero di Bazarak, il villaggio dov’era nato mezzo secolo prima e dove l’avevano ora accompagnato la moglie e i loro sette figli, sei ragazze e un solo maschietto, di appena tredici anni.
Si chiamava Ahmad Shah Massud, ma era più noto in tutto il mondo come il “Leone del Panshir”, appellativo che gli avevano affibbiato per le sue imprese belliche contro l’Armata Rossa, inviata da Mosca alla fine del ’79 per sostenere l’agonizzante regime islamico di Kabul, presieduto allora dal filosovietico Najibullah. Era il 9 settembre del 2001.
Come appresi un anno dopo, nel primo anniversario della tragedia, la telecamera dei due pseudo-giornalisti pachistani al soldo dell’ISI – i Servizi segreti di Islamabad – che avevano chiesto l’intervista al Grande Capo era imbottita di dinamite: e quando esplose, Massud cadde a terra dilaniato insieme ai suoi assassini. Ferito gravemente anche il suo braccio destro e fedelissimo amico, l’omonimo Massud Khalili, che però sopravvisse e fu prodigo di preziose testimonianze sull’intera vicenda.
Per queste mie assenze nei momenti cruciali della sua esistenza mi sento ancora in colpa, come se non avessi assolto fino in fondo il compito di un inseguimento durato più di trent’anni: i primi venti a registrare, passo dopo passo, le tappe della sua ascesa e delle sue gesta – vittorie e sconfitte – come leader militare dei mujaheddin nella lotta contro l’esercito russo-afghano; gli ultimi dieci a rintracciare il suo fantasma nei luoghi che lo videro protagonista della Jihad, la santa guerra, come essa viene definita nel vocabolario islamico.

Un racconto lungo trent’anni. Quanto segue è il diario in pillole della mia personale esperienza in Afghanistan.
A cominciare dal ’79, erano sette i gruppi dei mujaheddin impegnati nella guerriglia e quello cui apparteneva il Comandante tagiko Massud – lo Jamiat Islami – militava sotto la guida di Barhanuddin Rabbani, un leader moderato con ascendenze mistiche divenuto poi un apprezzato e ben voluto presidente. A differenza dei colleghi al comando degli altri sei gruppi, che di tanto in tanto facevano una capatina a Peshawar per distendersi e svagarsi, Ahmad Shah restava perennemente inchiodato alla sua remota (e spesso ghiacciata) trincea. Ed era proprio fino a lassù che dovevi arrampicare per strappargli quattro parole e mezzo sorriso: tre settimane di cammino in gran parte a piedi, se non avevi la fortuna di imbatterti in un quadrupede o in un rantolante furgone per coprire i 130 chilometri della strada in salita.
Arrivammo ch’era già buio alla sua casa-caserma nei pressi di Bazarak, accarezzata giorno e notte dalla nenia del fiume Panshir, che le scorre accanto: il Comandante stava discutendo col suo entourage sulla strategia da adottare per contenere la settima offensiva degli sciuraví – i russi – che era già stata battezzata, con sarcasmo “Operazione Goodbye Massud”. «Dite a quel buffone di Gromov», fu la graffiante risposta del tagiko, con riferimento al Generale Comandante della “Red Army”, «che si affretti a imparare il francese perché il suo truculento messaggio sull’imminente disfatta del nostro esercito dovrà essere modificato e tradotto in “Au revoir Massud”».

Un architetto mancato. Nato nel Panshir, dove trascorse l’infanzia, il futuro eroe della Jihad s’era ben presto trasferito con la famiglia a Kabul per frequentare il liceo (sezione francese) e iscriversi quindi alla facoltà di architettura: ma con grande delusione di suo padre – funzionario e ufficiale, prima del sovrano Zahir Shah (per lungo tempo esule in Italia, a Capri), poi del presidente afghano Daud – abbandonò in fretta la carriera universitaria e intraprese, con successo, quella politico-diplomatica.
Quando lo incontrai nell’81 a Kabul, Massud aveva 26 anni. Aveva l’aria di un giovane piuttosto riservato, se non laconico o taciturno: un volto pallido, affilato, grandi e scuri gli occhi. Ma correva voce che fosse un ribelle, un “carbonaro”, ed era stato anche sbrigativamente definito “una testa calda”. Mi disse subito che la sua lotta contro l’Autorità (leggi Daud) era cominciata nel ’75 con un tentativo di sollevamento nel Panshir che non ebbe successo. Ci riprovò quattro anni dopo, quando il potere era nelle mani dei leader filosovietici Taraki e Amin e questa volta le cose andarono un po’ meglio: nel senso, almeno, che vennero concessi alla sua Vallata circa due mesi di autonomia o di “quasi indipendenza”. Ci furono anche degli scontri armati tra le diverse fazioni degli insorti, in uno dei quali rimase ferito a una gamba: «Come Garibaldi», commentai io compiaciuto, riesumando un episodio della nostra storia, che aveva tutto il diritto di ignorare.
Nell’estate del 1984, tra le foto pubblicate sui giornali c’era quella di un pilota russo precipitato dal proprio aereo che giaceva a terra, ma tanto disteso e composto che pareva dormisse e senza neanche una macchiolina di sangue sul volto e sulla tuta: “Ecco una delle ultime vittime della Settima offensiva”, informava la didascalia. Già nella primavera di quell’anno i sovietici avevano preannunciato che con l’“Operazione Goodbye Massud” si sarebbero sbarazzati una volta per sempre del Comandante tagiko, di cui avevano addirittura anticipato le date del giorno di cattura e della morte. Non è stato perciò di poco sollievo trovarselo davanti, a fine aprile, tutto intero e sorridente. «Vedete?», scherzava. «Sono ancora vivo. Toccatemi. Ma non ditelo in giro. Potrebbe essere pericoloso».
Nella strategia della guerra, il Panshir era un baluardo importante e difficilmente accessibile, da cui partivano le operazioni-lampo dei guerriglieri dello Jamiat Islami che con marce forzate o galoppate da stambecco lungo i crinali delle montagne potevano raggiungere il Passo di Salang, sull’autostrada Russia-Kabul, o la base aerea di Bagram e pure la capitale. Ma la sua importanza non era soltanto strategica. Il Panshir era infatti riuscito a diventare una specie di minireplica islamica, nella quale avevano finito col riflettersi le aspirazioni e gli obiettivi dell’intero Movimento della Resistenza, nonostante i conflitti ideologici o etnico-tribali tra i vari gruppi, che ne minavano la coesione. Il timore dei sovietici era che attorno a Massud e ai suoi uomini si stesse formando l’embrione di un governo in esilio nel quale eventualmente tutte le forze della Jihad si sarebbero riconosciute.
I testi di storia contemporanea stabiliscono che in meno di quindici mesi dal giorno dell’invasione, gli sciuraví avevano già sferrato, con l’aiuto dei governativi di Babrak Karmal, tre massicce offensive contro il Panshir, e che tutte e tre le volte Massud li aveva respinti: «So benissimo che i soldati delle guarnigioni statali amano molto questo paesaggio alpino», confidava il Comandante col consueto piglio canzonatorio, «e ne sono veramente dispiaciuto. Ma per il momento debbono proprio rinunciare alla villeggiatura e farsi le vacanze altrove». Al tempo stesso non poteva non rendersi conto che le sue forze, logorate da tre anni di lotta continua e sfibrante e da disagi d’ogni genere, avevano bisogno di una vera e propria tregua per potersi ritemprare e riorganizzarsi. Era l’inizio del 1983, un inverno eccezionalmente rigido che metteva ulteriormente in difficoltà i mujaheddin, rintanati nelle loro spelonche di ghiaccio oltre i 3.000 metri, con scarse riserve di viveri: situazione quasi disperata che indusse Massud a concludere una tregua separata di sei mesi coi capi militari russo-afghani.

L’invidia di Hekmatyar. Decisione che mandò su tutte le furie il leader dello Hezb-i-Islami, Gulbuddin Hekmatyar, grande rivale del “Leone del Panshir”, che detestava da sempre “con tutte le sue viscere” e di cui invidiava l’enorme popolarità e soprattutto il fatto che avesse raggiunto, ai suoi danni, il vertice del potere. «Panshir, Panshir, Panshir», mi disse un giorno, irritatissimo, nel suo studio di Peshawar, dove sul piano della scrivania cartucciera e pistola erano in bella mostra accanto a una copia del Corano. «Ma ci sono eventi molto più drammatici e importanti oggi in Afghanistan. Inoltre, la tregua firmata da Massud è stato un grosso errore e avrà conseguenze negative per tutto il Movimento della Resistenza».
«Non fu un cedimento né tanto meno una debolezza», protestò il Comandante quando andai a trovarlo in montagna nell’estate del 1984. «Credo di aver agito per il meglio date le circostanze, dopo aver soppesato, da buon montanaro, i pro e i contro. Chi mi pone sotto accusa non ha dovuto sostenere, come me, il peso di sei anni e mezzo di lotta contro l’Armata Rossa. Avevo assolutamente bisogno di riorganizzarmi, di concordare una strategia comune con gli altri gruppi armati, da Kabul al confine settentrionale».
Tremilacinquecento uomini sarebbe stato il costo, in vite umane, della Settima offensiva nel Panshir: un totale piuttosto elevato se lo si pone accanto al numero dei morti e feriti – circa dodicimila – dei sei attacchi precedenti. Costo spropositato, se lo si confronta con le perdite dei mujaheddin che hanno avuto soltanto cinquanta vittime. Ma sia per Kabul come per Mosca, questa incontrollabile regione era diventata motivo d’orgoglio, come sottolineava un alto ufficiale sovietico che in una lettera a Babrak Karmal lo consigliava di «lasciarlo perdere, questo Panshir, perché costa troppo caro».
E finalmente, dopo una serie estenuante di promesse e rinvii, venne il giorno del grande rientro. Applicando meticolosamente l’accordo di Ginevra del 15 maggio ’88, i primi reparti motorizzati dell’Armata Rossa diedero l’avvio allo spettacolare, pacifico esodo lasciando Kabul di prima mattina e dirigendosi incolonnati verso l’Amu Darya. L’ultimo soldato sovietico a lasciare l’Afghanistan fu il generale Gromov che dal ponte sul fiume, con la dovuta autarchia di gesti, si accomiatò militarmente dal Paese che lo aveva ospitato per un paio d’anni, la mano alla visiera.

Il suo no all’integralismo. L’ultima volta che vidi Massud fu qualche anno dopo a Strasburgo, dov’era approdato per un Convegno internazionale, durante il quale mi confidò il suo profondo disagio nei riguardi di Capi di Stato e ministri degli Esteri europei che limitavano il suo ruolo di grande dissidente entro i confini del Panshir, mentre «io combatto anche per voi, per bloccare l’espansione dell’integralismo islamico in tutto il mondo, che è un morbo letale per l’umanità». Ma la sua immagine e l’accorata saggezza dei suoi messaggi appena bisbigliati sono venuti a galla in tempi assai più recenti grazie ai colloqui con Khalili, il compagno d’infanzia e di scuola nel villaggio di Bazarak, da qualche anno ambasciatore afghano in Spagna, nella sede di Madrid. Ed è proprio insieme a lui che Massud trascorse le ultime ore della propria esistenza, ignaro di quanto sarebbe avvenuto il mattino dopo quando due sconosciuti gli diedero un fragoroso buon giorno, scaraventandolo già morto sul pavimento, che nello stesso istante avrebbe fatto posto anche ai loro due cadaveri.
Giostrando svogliatamente fra letture e conversazioni, i due fecero le ore piccole: finché l’ultimo, fioco barlume di interesse letterario li spinse verso le zone sideree dove giacciono, imbalsamati per l’eternità, i Mostri Sacri di Victor Hugo (Les Travailleurs de la Mère) e di Dante Alighieri (La Divina Commedia). Non è dato sapere a chi tocchi il compito di spegnere la luce, quando fa notte.
Ahmad Shah Massud, che, vox populi, è rimasto “il solo vero eroe nazionale rimpianto da tutti”, è sepolto a Sareeka, la collina dei martiri, un’arida collina a nord di Bazarak. Diversamente dagli Osama bin Laden e dai Gulbuddin Hekmatyar, che continuavano a sognare la restaurazione di una teocrazia islamica, Massud non ha mai assecondato questo genere di esaltazioni mistiche. Si riteneva un leader moderato coi piedi per terra. E non esitava ad ammettere che in un suo eventuale governo ci sarebbe stato spazio per le donne.
Ettore Mo