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 2012  settembre 07 Venerdì calendario

JOBS INEDITO: FUORI DALLA MELA SOGNAVA UNA RIVOLUZIONE


Correva l’anno 1995 e al timone dell’Italia c’era, come oggi, un governo tecnico, quello guidato da Lamberto Dini. In Francia diventava presidente Jacques Chirac. Negli Usa una bomba devastava la sede dell’Fbi di Oklahoma City causando centinaia di morti. In Serie A cominciava il ciclo della Juve di Lippi. E Steve Jobs era un profeta senza patria.
Benintenso, non che l’allora quarantenne fondatore di Apple fosse disoccupato. Guidava infatti ben due aziende, entrambe destinate a far storia. Una era la Pixar: nel novembre di quel 1995 il suo primo lungometraggio Toy Story avrebbe cambiato per sempre il modo di fare film d’animazione al cinema e inaugurato un’impressionante serie di capolavori e di successi al botteghino. L’altra azienda di Jobs, oggi probabilmente misconosciuta ai più, si chiamava NeXT, versava in cattive acque, e fu il cavallo di Troia per il suo rientro, da salvatore, in Apple. Quell’azienda che lui aveva fondato con Steve Wozniak nei lisergici anni Settanta e da cui era stato estromesso con un vero e proprio golpe interno 10 anni prima, nel luglio 1985, un anno e mezzo dopo essere diventato il divo del mondo dell’informatica con la presentazione del rivoluzionario Macintosh.

L’intervista perduta. In quel 1995 rilasciò un’intervista-confessione di oltre un’ora al giornalista e informatico americano Robert X. Cringely (nom de plume di Mark Stephens). Una rarità vista la ritrosia di Jobs a confrontarsi a cuore aperto con la stampa. In quell’ora di risposte c’è lucida analisi, disincanto, rabbia repressa, filosofia spicciola, un velo di malinconia. E magnetico carisma che ti fa annuire anche quando – se conosci un po’ la materia di cui si parla – intuisci che in certe frasi di Jobs ci siano più bugie che mezze verità. Quel “campo di distorsione della realtà” che i suoi collaboratori nella prima era geologica della Apple, dalla fondazione alla nascita del Macintosh, avevano sperimentato. E che le platee di tutto il mondo avrebbero apprezzato nelle tante perfette presentazioni che il pifferaio magico di Cupertino avrebbe tenuto dopo il suo ritorno al timone di Apple. Un ritorno destinato a consumarsi circa 12 mesi dopo quell’intervista, nel 1996, prima in forma di “consulente” dell’allora amministratore delegato Gil Amelio e dal 1997 in prima persona come Ceo. Anzi come iCeo a 1 dollaro di stipendio (ma molte decine di milioni di dollari in stock option).
L’intervista di Cringely è una specie di favola in sé. Era parte de Il trionfo dei nerd, trasmissione tv in più puntate che celebrava l’ascesa dell’industria del personal computer. Il master della registrazione con Jobs andò però perduto nel trasferimento tra Londra e New York, non andò mai in onda. Per oltre tre lustri venne considerato perso. L’Intervista Perduta però rispuntò fuori, sotto forma di Vhs duplicata, da un garage (un po’ come Apple spuntò fuori da un garage di Los Altos). E ora, ripulita da Cringely, e accompagnata da un volumetto arriva in libreria per i tipi di Feltrinelli. Un ideale sequel e compendio alla monumentale biografia di Steve Jobs redatta da Walter Isaacson, uno dei bestseller della scorsa stagione editoriale.

Le bollicine del tradimento. In video compare uno Steve ancora giovane, capello lungo e occhiale tondo senza montatura, una certa somiglianza col John Lennon post Beatles, addosso il dolcevita nero che diventerà divisa d’ordinanza (con jeans e scarpe da tennis). All’inizio ballonzola un po’ nervoso sulla sedia. Si ferma pensoso qualche istante su quasi tutte le domande. Ma tira dritto e ha gli occhi che si accendono quando Cringely gli chiede della sua cacciata da Apple. Del “complotto” ordito da John Sculley. Quell’uomo proveniente da Pepsi Cola che Jobs fortemente volle per guidare Apple come amministratore delegato e da cui fu tradito al termine di un conflitto di potere interno all’azienda che si concluse con l’uscita di scena dell’allora trentenne Steve. Nella sua biografia Odyssey, uscita nel 1987, Sculley scrisse: «Per lui (Jobs, ndr) Apple sarebbe dovuta diventare una meravigliosa società di prodotti di largo consumo. Un progetto folle. L’alta tecnologia non può essere progettata e venduta come un bene di consumo». Oggi, un anno dopo la morte di Steve Jobs, Apple ha segnato il record di capitalizzazione di tutti i tempi per una società quotata in Borsa. Le azioni viaggiano stabilmente sopra i 650 dollari. Al Nasdaq vale più di Microsoft, Google, Amazon e Facebook messe insieme. Numeri pazzeschi raggiunti proprio nel modo che Sculley giudicava insensato: trasformando gli oggetti tecnologici da meri strumenti di lavoro in prodotti belli, desiderabili, affascinanti, super modaioli ma anche umanizzati. E diffusissimi: iPhone e iPad sono stati due dei prodotti a più rapida penetrazione sui mercati della storia.

Dal flop al top. Ma in quel 1995 in cui Jobs passava un’ora della sua vita rispondendo alle domande di Cringely le cose erano diverse. Molto, molto diverse. Al Nasdaq Apple quotava intorno ai 10 dollari (nel terribile 1996 sarebbe scesa ancora, dimezzando il valore). L’amministratore delegato Michael Spindler detto “The Diesel” aveva assunto il suo ruolo 2 anni prima (dopo il siluramento di Sculley), nel 1993, con il preciso incarico di trovare un compratore per la società e aveva ancora in corso colloqui, mai chiusi, con nomi quali Sun, Ibm, Hewlett-Packard e Philips. I prodotti Apple erano privi di fascino (come i computer Performa), bisognosi di un rilancio (come il sistema operativo Mac Os), malfunzionanti (come il pur innovativo palmare Newton) o semplicemente fallimentari (come la console da gioco Pippin, lanciata proprio a fine 1995 in collaborazione con la giapponese Bandai: vendette appena 40 mila pezzi). L’assortimento era caotico, con decine di Macintosh con nomi diversi e caratteristiche quasi identiche. L’azienda procedeva senza una chiara direzione, se non il baratro. Dalla grande stampa e da quella specializzata era guardata con compassione quando non apertamente presa in giro (i tempi della Apple cocca dei media erano di là da venire). E proprio in quell’anno una Microsoft già dominante lanciava Windows 95, il sistema operativo di maggior successo della storia, che le avrebbe garantito il controllo totale sul mercato dei pc e del software.
Quando Cringely gli chiese dello stato della sua ex azienda, Jobs ci pensò un attimo ed elaborò la risposta più amara e lucida del colloquio: «Apple sta morendo. Una morte molto dolorosa. Quando me ne sono andato avevamo un vantaggio di 10 anni sul resto del settore. Il Macintosh era avanti di dieci anni. La Microsoft ha impiegato 10 anni per mettersi in pari. Il motivo per cui ci sono riusciti è che la Apple era ferma. Il Macintosh che si vende oggi (nel 1995, ndr) si differenzia solo del 25% da quello che vendevamo quando io me ne sono andato (…) Non avevano più idea di come funzionano queste cose e di come creare nuovi prodotti».
Ecco che spunta la parola magica: «Prodotto». Quando nel luglio 1997 Steve Jobs, appena rientrato in Apple (nominalmente come “consulente”, sarebbe diventato Ceo solo in settembre), arringò i dirigenti dell’azienda nell’auditorium di Cupertino chiedendo: «Ok! Ditemi, cosa c’è che non va in questo posto?», dopo qualche risposta biascicata si mise a urlare: «Sono i prodotti. I prodotti fanno schifo! Non hanno più alcun fascino».

Funzionale e affascinante. La cultura del prodotto bello e perfettamente funzionante, portatore di innovazione ma non fine a se stessa, innervato da un’anima artistica (ma non eccentrica) che risiede nei dettagli anche più minuti. La tecnologia che si sposa con la cultura, nell’accezione più completa del termine. La ricerca della qualità totale. Su questi fondamentali un nuovo Jobs – più maturo, sposato e padre consapevole, memore dei suoi errori, con una determinazione ferocissima solo in parte fiaccata negli anni dal cancro che l’avrebbe ucciso nel 2011 – avrebbe fondato la Apple 2.0, capace della più spettacolare resurrezione della storia dell’industria.
Un paradigma industriale, anzi una filosofia (ben più feconda e “vera” del pur immaginifico discorso del 2005 alla Stanford University, quello dello «Stay Hungry. Stay Foolish» diventato trito luogo comune dopo la morte) con cui Jobs rivoltò l’azienda, facendo pulizia della “bad company” degli anni di Sculley e seguenti. Buttò nel cestino la Apple governata da uomini che non amavano e neppure conoscevano i loro prodotti, allevati in aziende in cui chi contava veniva dal marketing e pensava solo in termini di marketing. Un marketing che pure Jobs sfruttò in maniera perfetta (dalla storica campagna Think Different al perfetto controllo della comunicazione aziendale, dal packaging agli Apple Store come veri luoghi di culto per promuovere il brand) ma che non sarebbe bastato senza una sostanza dietro. Senza innovazione. Senza la “vision” formidabile che era la sua più grande risorsa.
Tre anni dopo l’intervista a Cringely, nel maggio 1998, arrivò l’iMac, un computer incredibilmente “sexy” che segnò la prima svolta, poi concretizzata dall’esplosione dell’iPod nel 2001. La terza vita di Apple è cominciata poco più di un anno fa, il 25 agosto 2011, con le dimissioni di Jobs. Anche se per ora, più che una Apple 3.0, è ancora una Apple 2.5, che campa di rendita su mercati, come quello degli smartphone, dei tablet e delle app, in cui le scelte visionarie di Jobs hanno tracciato il solco. Il nuovo nocchiero Tim Cook per ora ha tenuto la barra dritta e la sentenza storica che ha condannato Samsung – la nuova rivale numero 1 – per violazione multipla di brevetti dà nuovo gas alla Mela. Ma nulla è per sempre in un mercato come quello del software dove, spiega Jobs a Cringely, «la differenza tra la media e il top è di 50, forse di 100 a uno». Chi azzecca la prossima rivoluzione, come fu indubbiamente l’iPhone nel 2007 e il suo schermo a tocco, si prende il piatto. E non è detto che sarà Apple.
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@pottolina