Federico Guerrini, l’Espresso 7/9/2012, 7 settembre 2012
INTERNET SI NASCONDE QUI
Quando sei anni fa Ted Stevens, il senatore dell’Alaska nonché presidente della Commissione del Congresso deputata a regolare l’industria delle telecomunicazioni descrisse Internet come «una serie di tubi», fu facile, per commentatori e avversari politici, ridicolizzarlo. Esperti di ogni schieramento reputarono troppo goffa e ingenua la similitudine, quasi un sacrilegio nei confronti della complessità e magnificenza della Rete. In realtà, Stevens - come racconta il giornalista di "Wired" Andrew Blum, nel suo libro "Tubes. A journey to the center of the Internet", uscito quest’anno - aveva, almeno in parte, ragione. Internet è anche una serie di tubi: «Dentro questi tubi», scrive Blum, «ci sono, in larga misura, fibre ottiche; dentro le fibre, luce, e codificati in questa luce ci siamo, sempre più, noi».
Nel corso di un viaggio durato un paio d’anni, iniziato quando uno scoiattolo rosicchiò i cavi che portavano la connessione Web alla sua abitazione newyorkese, inducendolo a riflettere sulla precaria "fisicità" del mezzo, l’autore ha girato l’Europa e l’America cercando di ricostruire i percorsi compiuti da queste condutture, tracciandone i punti di partenza e i crocevia, gli Exchange Point dove il traffico di dati proveniente da varie parti del mondo viene smistato, per arrivare agli immensi data center dove tali dati vengono custoditi per essere analizzati e catalogati a fini (per lo più) commerciali. Scoprendo che la geografia di Internet rispecchia spesso quella della Storia - molti degli hub più importanti sono collocati in città aventi grandi tradizioni come centri di scambio e commercio: Londra, Amsterdam, Francoforte, New York, fra gli altri - e che a gestire questa gigantesca "rete di reti" è un club ristretto di pochi specialisti, quasi una confraternita di ingegneri che si conoscono e rispettano fra loro.
«La cosa che mi ha colpito di più alla fine», racconta Blum a "l’Espresso", «è quanto piccola in fondo sia Internet, e quante poche persone siano coinvolte nell’amministrarla. Ero a Seattle da Microsoft, che ha 90 mila impiegati in tutto il mondo, e ho chiesto quanti di essi fossero coinvolti nella gestione delle reti di dati. Duecento, mi hanno risposto. Ho chiesto invece quanti si occupassero di collegare tali reti a quelle di altre società: cinque. È stupefacente». Specie in situazioni e crisi imprevista, in cui manca un protocollo preciso da seguire, sapere chi c’è dall’altra parte della linea e potersene fidare, assume un’importanza fondamentale.
Il ridotto numero degli addetti ai lavori ha facilitato il lavoro di scavo del giornalista americano: «Una volta che mi sono guadagnato la fiducia di alcuni di loro», spiega, «è stato più facile convincere gli altri che la mia ricerca era sincera e volta a celebrare quello che facevano, non a criticarlo». E così Blum ha superato l’iniziale comprensibile muro di diffidenza. Nei confronti dei grandi complessi architettonici da cui si dipartono i "tubi" vige infatti la stessa regola non scritta che si applica all’omosessualità nell’esercito o ai circoli di lotta clandestina nel film Fight Club: "non domandare".
Alla base ci sono motivi di sicurezza: man mano che l’intera struttura della società dipende in maniera crescente dalla Rete, tali edifici diventano potenziali obiettivi di attentati. Non è paranoia: nel 2007 Scotland Yard sventò un complotto di Al Qaeda per distruggere il grande complesso londinese di Telehouse. Lo stesso Blum si è posto qualche interrogativo sull’opportunità del suo sforzo divulgativo, specie dopo che uno degli intervistati gli ha chiesto, senza perifrasi, se non stesse tracciando una sorta di "roadmap per terroristi". «Mi sono accorto in seguito però», racconta il giornalista, «che le informazioni logistiche erano già in gran parte pubbliche. Quando il capo della sicurezza mi domandò di non rivelare l’ubicazione di uno di di questi edifici, ebbi buon gioco a dirgli che se inseriva il nome della società su Google e la città, con Google Maps atterrava proprio davanti al portone».
Un’altra ragione, sicurezza a parte, per la scarsa pubblicità data a questi siti è il fatto che, dal punto di vista estetico i "monumenti di Internet", come li chiama Blum, non sono certo luoghi di rappresentanza: all’interno somigliano più a iper tecnologici sgabuzzini, in cui ogni spazio possibile è stipato e occupato da router (gli apparecchi che servono a indirizzare ogni connessione verso la destinazione corretta), cavi e luci al neon. Anche l’aspetto esteriore sembra fatto apposta per non attirare l’attenzione: dal Deutscher Commercial Internet Exchange (o De-Cix) di Francoforte all’Ams-Ix di Amsterdam, al grande complesso di Ashburn in Virginia, si tratta di edifici volutamente anonimi, riconoscibili, per contrasto, solo dalle telecamere di sorveglianza all’esterno e dall’assenza di contrassegni identificativi.
Questo però sta cambiando, grazie soprattutto alla diffusione dei servizi basati sul cloud: «Più si parla della nuvola», dice Blum, «più le aziende capiscono che quest’ultima deve essere visibile e celebrata. Il mio esempio preferito, è il data center di Facebook a Prineville, nell’Oregon che è piuttosto bello, perché serve a celebrare Facebook e quello che fa. Anche a Londra l’edificio più accattivante del complesso Telehouse, è il più recente, quello del 2011, in linea con la tendenza a costruire i luoghi di Internet sempre più come "monumenti" architettonici».
Posti da sfoggiare e far visitare, ad eccezione di quelli targati Google; la Grande G non si è dimostrata molto collaborativa, opponendo un muro di gomma alla richiesta di Blum di poter visitare il centro dati di The Dalles, Oregon, e consentendo tutt’al più al giornalista di osservare muri e sala mensa, trincerandosi dietro le esigenze del rispetto della privacy degli utenti e della protezione dai concorrenti. «Da Google», sottolinea Blum, «mi aspettavo una risposta diversa, dato che è la società che raccoglie più dati mi attendevo che fosse più disposta a rendere conto di come li custodisce».
Uno dei passaggi più affascinanti di Tubes, è la cronaca della posa di un cavo dati oceanico a nord di Lisbona. Tanto grandioso e astratto l’obiettivo - fornire un accesso più veloce alla Rete ai paesi che si affacciano sulla costa occidentale africana – quanto "artigianale", nel senso alto del termine, la sua realizzazione, dalle mani degli ingegneri inglesi che denudano delle loro guaine le fibre ottiche e le uniscono fra loro, al tuffo del sub incaricato di portare i cavi fino a terra, agli uncini delle speciali navi incaricate di raccoglierli dal fondo marino per una riparazione.
Qui la grezza materialità di ciò che siamo abituati a immaginare solo come un flusso di bit appare particolarmente evidente: la Rete non è qualcosa di astratto che occupa soltanto lo spazio sterminato del cyberspazio ma una sua misura, una peso, un odore.
«Alla base, Internet è fatto di impulsi luminosi», sottolinea Blum. «Tali impulsi possono sembrare miracolosi, ma la magia non c’entra. Sono prodotti da potentissimi laser contenuti in contenitori di acciaio collocati in edifici anonimi. I laser esistono. I contenitori esistono. Gli edifici esistono. Internet esiste, con una sua concretezza molto fisica e palpabile».
Essere consapevoli di questo, vuol dire poter comprendere come l’evoluzione dell’infrastruttura materiale condizioni e determini le opportunità politiche e sociali. E potersi regolare di conseguenza, perché l’informazione, è, come sempre, potere. «Ritengo che anche negli Usa, ad esempio, Internet potrebbe essere migliore, più veloce», spiega il giornalista, «ma manca competizione. La gente però non è in grado di pretendere in più dalla Rete, perché non ne comprende il funzionamento di base, quello che accade dietro le quinte. Per questo il mio vuole essere un libro vivace, descrittivo, non solo per addetti ai lavori. E anche per quanto riguarda la sicurezza nazionale, sono molto più preoccupato che senatori e membri del Congresso legiferino su cose che non conoscono piuttosto che dei terroristi».