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 2012  settembre 06 Giovedì calendario

C’ERA UNA VOLTA IL GRANDE FRATELLO

Il Grande Fratello va in stand-by per una stagione perché aveva raggiunto il livello di saturazione. Troppo mal gestito negli ultimi anni, troppo poco tempo fra un’edizione e l’altra, troppi cloni. Il reality fonda la sua forza nel casting, nell’assortimento dei partecipanti. Che è un’alchimia difficile: bisogna trovare le persone giuste. La scelta degli inquilini è tutto: le storie nascono non soltanto dal vissuto personale ma dall’incontro-scontro fra caratteri diversi. Per questo è necessario trovare persone capaci di interagire fra di loro, altrimenti la macchina drammaturgica si inceppa. La scelta ferale poi è stata quella di abbassare il target di riferimento in direzione di quell’area malefica che è il tronismo. Ormai succede come nel calcio: è possibile cambiare la formazione in corsa. Non tre concorrenti, ma a piacere. Il dispositivo delle correzioni in corsa impedisce ogni forma di fidelizzazione. Delle ultime edizioni, non si ricordano i nomi dei protagonisti, oppure accanto al nome proprio bisogna sempre aggiungere «del Grande Fratello».
Una cosa è certa, lungo il corso delle 12 edizioni, sotto l’occhio del Grande Fratello è sfilata una galleria di personaggi degni della Comédie Humaine. Ancora ingenui e inconsapevoli del potere trasformante delle telecamere i primi, smaliziati e disposti a tutto quelli delle ultime stagioni.
Nella parata dei concorrenti, tra molti volti indistinti, ne emergono alcuni che hanno segnato più di altri l’immaginario collettivo, restano alcuni episodi cristallizzati nella saga del reality. Pietro Taricone e la sua prima notte d’amore con la bagnina Cristina. Pietro è stato la prima vera icona da reality in Italia: dietro la scorza dura e coatta del palestrato, dello sciupafemmine, c’era un ragazzo sensibile che si interrogava sul significato dell’esplosione mediatica seguita al suo ingresso nella casa. Si poneva delle domande, inseguiva consigli, cercava di sfuggire alla spietatezza del baraccone televisivo. Persino giornali molto raffinati gli dedicavano rubriche e attenzione.
Molta della mitologia del reality ha a che fare con le intemperanze dei concorrenti, innescate dal lungo isolamento o semplicemente da un brutto carattere. E allora via con le sigarette del conte Filippo Nardi («Dove sono le sigarette?!... Qui noi abbiamo emozioni vere!»), con le sfuriate della «coatta» Floriana Secondi, con le bestemmie assortite inaugurate dal toscano Guido, con le risse sfiorate o di fatto.
Poi, quando Gf si contamina sempre più profondamente con la soap (spesso di bassa lega), parte la girandola delle coppie, più o meno riuscite. Sicuramente si sdogana la parola «azzerbinato», detto prima del conte Ascanio Pacelli, devoto alla futura moglie Katia, e poi dell’educatissimo italogiapponese Andrea, «zerbino» di Margherita Zanatta.
Il Gf vive su un grandioso paradosso: è stato un programma innovativo dal punto di vista linguistico, molto imitato, eppure gode di cattiva fama. Quando si deve parlar male della televisione non si fa ricorso ai tronisti, ai talk taroccati, alle risse in diretta spacciate per approfondimento. No, la colpa di ogni male ricade su Gf.
Come ho già avuto modi di osservare, all’inizio Gf è stato un’eccezionale cerimonia di iniziazione, per dieci persone, s’intende, ma anche per tutto il pubblico che ha variamente seguito il noviziato.
In un periodo limitato, un manipolo di nuovi eroi, o più semplicemente di tipi, è passato dall’anonimato alla notorietà (l’aspirazione principale della nostra società), come succede in altre trasmissioni dedicate alla gente comune, sebbene con fasi molto più lunghe e intermittenti. Chiamati a superare alcune prove, a dimostrare la loro povera sintassi interiore, a stringere alleanze, a «conoscersi», a odiarsi, i dieci «reclusi» di Cinecittà si sono abbeverati alla fama, più nel suo principio che nel suo dispiegarsi, indifferenti verso ogni forma, verso ogni qualità; ma quel gruppo è la società tutta, la casa del Gf, spesso svillaneggiata, è il luogo cui è possibile racchiudere l’intero corpo sociale.
Gf ci pone di fronte a una situazione televisiva inedita: per alcuni mesi viene attivato un laboratorio di situazioni comportamentali (alleanze, amicizie, incontri, scontri, confronti), una grandiosa seduta di autocoscienza che curiosamente intercetta un bisogno esteso, uno psicologismo già molto diffuso nei settimanali.
Questo laboratorio — e qui sta la grande novità — è multiforme e insieme multimediale. A ogni pubblico corrisponde una modalità di fruizione: si intrecciano le storie dei protagonisti ma si intrecciano anche le diverse disposizioni d’animo con cui seguire le storie. Per molti è diventato un gioco di società (e di ruolo), un divertimento da spartire con i colleghi d’ufficio, buono per una lettura camp. Per altri, Gf è una soap opera senza trama, un talk show senza conduttore, padre e padrone, un flusso di coscienza che finalmente si sposa con il flusso televisivo, un notevole salto in avanti della tv.
Gf è, nella storia della televisione italiana, la trasmissione che ha collezionato più esecrazioni e insulti, modello esemplare di caduta del gusto, di trionfo della mediocrità, di degenerazione dei costumi.
Eppure, seguendolo, si capisce come in realtà sia un processo mediatico multiforme, che ibrida diverse piattaforme e media (da Internet alla tv a pagamento, dagli smartphone alla carta stampata), accumula e amalgama linguaggi e generi televisivi, generando parodie, producendo notizie, commenti, racconti paralleli: proprio questo aspetto lo rende spesso più interessante come processo e come generatore di discorso che come programma in sé. Il Gf è una linea di frontiera tra la televisione tradizionale e il nuovo, frammentario consumo televisivo attraverso il Web.
È facile parlarne male, difficile capirlo. Per questo, un po’ di lontananza non può che fargli bene.
Aldo Grasso