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 2012  settembre 01 Sabato calendario

Quelli del Gran Khan erano titoli sicuri - Oggi, è il debito pubblico il vero fantasma che si aggira per l’Europa

Quelli del Gran Khan erano titoli sicuri - Oggi, è il debito pubblico il vero fantasma che si aggira per l’Europa. Ma è un fantasma molto concreto, soprattutto dalle nostre parti. Ma la storia insegna che tutti gli imperi e gli Stati han­no dovuto combattere contro di lui. Dopo la puntata del 30 agosto scorso, dedicata all’anti­chità classica, in questo articolo Ezio Savino ci conduce da Bisanzio al ’700. *** «Bizantino» è sinoni­mo di artificioso, sofistico, maniera­to. «Bizantinismi» sono gli arzigogoli in cui s’incaglia l’astrusogergodellanostraburocra­zia. È lo stile dei mosaici d’epoca, con le sagome piatte e ieratiche de­gli Augusti di Costantinopoli che si stagliano sullo sfavillio dell’oro, astratto e senza tempo. In un cam­po, però, queigovernanticheresse­ro un impero oltre dieci secoli sono in controtendenza rispetto alla fa­ma di formalisti e maniaci dell’eti­chetta fine a se stessa: i metodi di ge­stione del debito statale. Semplificazione e accorpamen­to erano le loro parole d’ordine, a partire da Eraclio (575-641), un pa­dre fondatore. Tenne a bada i rulli compressori alle sue frontiere, Arabi, Persia­ni, Àvari, investendo in esercito e marina, tra i più efficienti al mondo. Le spese erano immense, ma il geniale contabi­le riuscì ad abbatterle di due terzi. Come? In­ventando il thema . In greco, la parola significa «ciò che è posto», una circoscrizione amministrativa fissa. Oggi la chiameremmo «pro­vincia ». La differenza con le nostre entità territoriali è che quelle di Eraclio,invece di proliferare all’im­pazzata e di costare un occhio, alla facciadellaspendingreview, siridu­cevano a 31 ( su un dominio che an­dava dall’Italia all’Anatolia, con il baricentro nel Mediterraneo), e in più rendevano. A capo del thema c’eralo stratego :in guerra comanda­va, in pace amministrava. Guada­gnava in proporzione al peso politi­co e militare del suo thema : si andava dalle 40 libbre d’oroannualidell’Ana­tolicon, l’avamposto strategico sui perico­losi confini est, al co­sto zero del Cher­son, laCrimea, inter­na e pacifica. Qui il reggente non succhia­va allo Stato, tratteneva una prebenda sui redditi dei soldati.I quali,in tempo di tregua,si trasformavanoinpossidenticonta­dini. Invece di svuotare le casse pa­gando la truppa, Eraclio la remune­rava in terra da coltivare. Con effetti virtuosi. L’agricoltore produttivo versa le tasse regolarmente. Inol­tre, quando scatta l’allarme getta la vanga e imbraccia lo scudo senza gravare sull’erario. A oriente, l’imperatore cinese, il Gran Khan, manteneva lo sfarzo di una corte da favola senza andare in rosso. I sudditi pagavano un tribu­to. Se però dilagava una carestia, il sovrano sospendeva l’esazione e sopperiva alla calamità inviando il suo grano. Interventi dispendiosi e contrastati perfino ai tempi nostri, con fisco e burocrazia che faticano a mollare la presa sulle zone terre­motate. Il governo di Cambaluc (l’odierna Pechino)faceva fronte ai debiti grazie al commercio fioren­te. I porti meridionali (il più traffica­to era Zartom) erano crocevia di ar­ticoli costosi. Dall’India i cargo sca­ricavano perle, ripartendo zeppi di seta. Alessandria mandava flotte a imbarcare le spezie per tutta l’Euro­pa. La dogana statale incamerava il 10 per cento come dazio. I moli e gli arsenali si pagavano: dal 30 al 60 per cento del sandalo,dell’aloe,del pe­pe. Una parte dei proventi rifluiva nelle casse pubbliche, in forma di imposta. Il cespite più importante del Gran Khan era la sua «tavola». Qui avvenivano transazioni da far invidia alle nostre borse. Per ordine imperiale, a date stabilite, gli uomi­ni d’affari e i magnati vi accumula­vano lingotti d’oro e d’argento, per­le e gemme. In cambio, ricevevano dei biglietti ufficiali firmati dal ca­po. Erano ritagli ottenuti dalla scor­za della piante del gelso, i primordi della cartamoneta. Questi docu­menti valevano «dieci bisanti», os­serva compiaciuto Marco Polo (1254-124), «ma non ne pesavano neppure uno»: praticità di traspor­to, sicurezza, valore legale, tutte le prerogative della nostra valuta car­tacea racchiuse in questa innova­zione del signore cinese. Di debiti e finanze il Po­loeraintenditore. Ilfu­turo viaggiatore ave­va otto anni, quan­do sulla laguna fu istituito il primo Monte, in seguito denominato Monte Vecchio, allorché un paio di secoli dopo sorse un Monte Nuovo e, nel 1509, un Nuovissimo. Nelle città del me­dioevo e del rinascimento italiano i Monti erano la risposta operativa ai debiti pubblici. In questo settore fe­ce scuola Firenze. In riva all’Arno prosperavano i commerci. Che far­sene di tanti fiorini? I mercanti di­vennero banchieri: Peruzzi, Medi­ci, Bardi. Prestavano liquidi alle te­ste coronate di tutta Europa. I peg­giori pagatori del mondo. Nel 1343, Edoardo III d’Inghilterra dichiarò il fallimento, trascinando nella vora­gine i Peruzzi. I dissesti di altri re­gnanti misero in ginocchio i ban­chi. Capitali e politica s’intrecciava­no nella repubblica del giglio: i «grandi»(iricchi)neeranogonfalo­nieriemagistrati, lelorodimoremo­numentali e le torri private rendeva­no forte e splendida la città. I loro crolli facevano traballare lo Stato. Per le spese correnti, Firenze non potevacontaresuintroitifiscali. Ne­gozianti e artigiani erano refrattari a ogni tipo di tassa: solo i servi e i vin­ti in guerra potevano essere spre­muti. Si ricorse a una forma di prelie­vo alternativo: il prestito, volonta­rio o coatto, che lo Stato s’impegna­va a rimborsare nel tempo. Nel 1347 i debiti furono ammassati in un enorme Monte Comune. Paga­va ai creditori un interesse del 5 per cento, rilasciando ricevute che cir­colavano sul mercato come mone­ta sonante. Sono le antenate dei no­striassegnibancari. Iguaicomincia­vano con l’impennarsi delle spese, soprattutto di guerra. Anche Geno­va lottava con il debito pubblico, aggravato braccio di ferro sul mare con Venezia. Creò il sistema delle «compere», associa­zioni di famiglie do­viziose, creditrici delloStato, acuiave­vano prestato fondi di sopravvivenza. Nel 1407unsodaliziodigran­di mercanti fondò il Banco di San Giorgio: capitali per salvare Ge­nova dal collasso. In cambio, lo Sta­to dava in appalto la riscossione dei tributi. Era la prima banca centrale, un miscuglio di società per azioni (garantiva il 7 per cento a chi deposi­tava), di agenzia per le riscossioni fi­scali, di zecca autorizzata a battere moneta in proprio. Un rischioso in­treccio tra po­litica pubblica e finan­zaprivatacheavrebbeispiratolana­scita, nel1694,dellaBancad’Inghil­terra, un cartello di finanziatori pronti a versare oltre un milione di sterline per la riscossa della corona, stremata dalla contesa imperialisti­ca con la Francia. La formula non so­lo salvò Genova dai debiti, ma innal­zò il suoi affaristi (nel corso del 1600, il «secolo dei Genovesi») al rango di banchieri d’Europa, spe­cialmente di una Spagna sul lastri­co, nonostanteilfiumed’oroinarri­vo dalle conquiste americane. L’oro non medica i debiti pubbli­ci. Favorisce il parassitismo. Per i nobili spagnoli era un disonore sporcarsi le mani con attività pro­duttive: meglio investire in latifon­di sterili e in juros , titoli di Stato, car­ta straccia che il trono non poteva onorare, se non indebitandosi con i prestatori genovesi. Un circolo vi­zioso destinato a sfociare nella deca­denza. Anche la Francia era alle pre­se con giganteschi debiti. Avrebbe­ro spalancato le porte a una rivolu­zione.