Sergio Romano, Corriere della Sera 6/9/2012, 6 settembre 2012
Ho letto le sue valutazioni sulla crisi siriana e le «tre guerre» che lei legge nel conflitto. Curiosamente non ho trovato alcun cenno ad altri «due fronti» caldi che interessano direttamente il Paese, quello israeliano e quello curdo
Ho letto le sue valutazioni sulla crisi siriana e le «tre guerre» che lei legge nel conflitto. Curiosamente non ho trovato alcun cenno ad altri «due fronti» caldi che interessano direttamente il Paese, quello israeliano e quello curdo. Qualcuno accusa Israele di spalleggiare i ribelli e di aver fomentato la guerra civile e qualcun altro lo accusa di sostenere il regime e i suoi crimini. E che dire dei curdi che non possono fare altro che appoggiarsi via via al nemico dei loro nemici, in una storia parallela e per certi versi simile a quella palestinese, ma in confronto così tanto trascurata nell’Occidente democratico? Fabio Della Pergola f.dellapergola@gmail.com Ai Paesi coinvolti nella crisi siriana si dovrebbe aggiungere Israele. Tel Aviv ha mantenuto un atteggiamento di guardinga attesa di fronte a un regime che, a parte la rivendicazione delle alture del Golan, si era astenuto, diversamente dall’Iran, da minacciose aggressività e non aveva reagito a una «sporadica» incursione aerea su un sospetto sito atomico siriano. Il prudente comportamento di al Assad trovava corrispondenza a Tel Aviv, ma Israele potrebbe essere indotto a diverse scelte qualora un cambiamento di regime a Damasco subisse l’influenza di fazioni islamiche estremiste. Francesco Mezzalama Roma Cari lettori, P er il governo israeliano il regime della famiglia Assad presentava un grande vantaggio. La Siria rivendicava le alture del Golan, conquistate da Israele nel 1967, ma non faceva nulla per riprendersi le terre perdute. Ne avemmo una prova il 6 settembre 2007 quando una squadriglia israeliana distrusse l’installazione nucleare di al-Kibar nel deserto siriano. Damasco protestò, ma incassò il colpo e voltò pagina come se quello israeliano non fosse stato un atto di guerra. Oggi sembra che Israele, di fronte alla guerra civile siriana, sia stato costretto ad adottare un atteggiamento attendista e passivo. Non può sostenere il regime di Bashar al Assad, ma non può non chiedersi che cosa accadrà in Siria se la guerra sarà vinta da una variegata coalizione composta da nazionalisti arabi, jihadisti e fondamentalisti musulmani. Il «fronte curdo», ricordato da Fabio Della Pergola, è ancora più complicato e potenzialmente minaccioso. Suggerisco ai lettori di dare un’occhiata alla carta della regione e, in particolare alla frontiera sud-orientale della Turchia con la Siria e l’Iraq, dal Golfo di Alessandretta, sul Mediterraneo, al confine iraniano. A nord della linea vivono circa 15 milioni di curdi turchi, a sud 600.000 curdi siriani e 5 milioni di curdi iracheni (a cui si aggiungono, più in là, 8 milioni di curdi iraniani). È questo il cuore del Kurdistan, lo Stato virtuale che fu promesso ai curdi dopo la fine della Grande Guerra e scomparve dalla carta geografica quando la nascita della Repubblica turca di Kemal Atatürk le grandi potenze si spartirono la terra su cui sarebbe sorto. Ma le speranze curde non si sono spente. Esiste un Consiglio nazionale curdo che raggruppa una dozzina d’organizzazioni, un Partito curdo dei lavoratori (Pkk) che combatte dal 1984 una guerra di guerriglia contro Ankara, un Partito democratico dell’Unione e, in Iraq, un governo regionale del Kurdistan, presieduto da Massoud Barzani, che gode ormai di una semindipendenza. Il governo turco di Recep Erdogan ha buoni rapporti con Barzani (la Turchia è il maggiore partner commerciale del Kurdistan iracheno, una regione economicamente fiorente) e ha fatto qualche concessione d’ordine culturale alla propria minoranza curda. Ma insegue i commando del Pkk al di là della frontiera irachena, sopprime il dissenso in patria e non sembra avere alcuna intenzione di concedere ai suoi curdi un’autonomia regionale. Domani, forse, dovrà aprire un nuovo fronte. Secondo una analisi recente del Financial Times, il presidente siriano Bashar al Assad avrebbe giocato al suo vecchio amico Erdogan un brutto tiro. Impegnato in altre aree del Paese l’esercito siriano si sarebbe ritirato dal suo confine nord-occidentale con la Turchia e avrebbe permesso in tal modo alle organizzazione separatiste curde d’installarsi nella regione e di piantarvi la propria bandiera. È un modo per dire ad Ankara che la stabilità e l’integrità della Siria dovrebbero interessare anche alla Turchia.