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 2012  settembre 04 Martedì calendario

L’EROE DALLA CHIESA LASCIATO SOLO CONTRO LA MAFIA


Questa è la storia di un uomo che non piegava la schiena. E per questo fu ucciso. Doveva morire. Anche lui. Dopo Boris Giuliano (capo della Mobile), Cesare Terranova (magistrato), Emanuele Basile (capitano dei carabinieri), Piersanti Mattarella (presidente della Regione), Gaetano Costa (procuratore). Mistero doloroso nella litania di sangue siciliano. Fa caldo nella Palermo del 3 settembre di 30 anni fa. Una temperatura incandescente, come la canna del kalashnikov che toglie la vita al prefetto Carlo Alberto Dalla Chiesa, alla moglie Emmanuela Setti Carraro e all’agente di sicurezza Domenico Russo. È l’arma che ha ucciso un anno prima Totò Inzerillo, fratello di Pietro, il capoclan vicino a Michele Sindona. (...)
Palermo, 3 settembre 1982. Ore 21,10. Esterno notte. Non c’è un motivo, dico uno, per cui non debba finire così. Ci sono molti conti da chiudere in via Carini. Segreti, forse ricatti. Quel piemontese arrogante ha pure una cassaforte nella residenza di villa Pajino. Chiusa. Quando l’apriranno, una decina di giorni dopo il suo martirio, troveranno pochi oggetti d’argento e una scatola verde vuota... C’è subito qualcosa che non torna: la chiave che non si ritrova fino all’11 settembre, rispunta d’improvviso. È a due metri di distanza, nel cassetto di una scrivania. Con tanto di cartellino. Si scoprirà, tempo dopo, che per apporre i sigilli dopo la morte furono necessarie 14 ore di attesa. Nessuno spiega perché due uomini andarono, subito dopo l’agguato di via Carini, a chiedere le lenzuola per avvolgere i cadaveri e restarono per mezz’ora a villa Pajino. Là dove rispunta la chiave di una cassaforte vuota. Beffardo il destino. Manca sempre qualche foglio nella storia di Dalla Chiesa. Come nel 1978, in via Monte Nevoso, ma allora era il memoriale di Aldo Moro. (...)
No, non c’è un motivo, ripeto uno, per cui non debba finire così. Dieci anni prima di Falcone e Borsellino. Sempre a Palermo. Ma questa storia parte in realtà dal Piemonte: 8 settembre 1974. A Pinerolo vengono arrestati Renato Curcio ed Enrico Franceschini. Tipi tosti. Guidano le Brigate rosse. Il gancio è uno strano figuro, soprannominato frate Mitra, registrato all’anagrafe come Silvano Girotto, un ex legionario. (...) È stato Dalla Chiesa ad avvicinarlo, proponendogli di entrare come infiltrato tra le maglie del terrorismo. Da poco il ministro Paolo Emilio Taviani ha voluto il Nucleo speciale antiterrorismo, affidandolo proprio al generale. Ebbene, i due vengono presi, Mario Moretti («la sfinge») riceve una telefonata da un uccellino e si salva: diventerà il nuovo capodelle Br.Anche quandoCurcioriescea fuggire dal carcere-colabrodo di Casale Monferrato. Precocemente il Nucleo viene smantellato. Dalla Chiesa viene comandato a una nuova missione, a capo del coordinamento degli istituti di prevenzione e pena.
E nel 1977, guarda caso, il terrorismo rosso torna a colpire. Come l’anno dopo. Mentre in via Fani, a Roma, va in scena il rapimento di Aldo Moro mentre si consuma la tragedia di un Paese, nessun politico pensa seriamente a richiamare nel servizio antiterrorismo Dalla Chiesa, l’uomo che in fin dei conti ha solo stroncato i brigatisti... La chiamata arriverà dal presidente del consiglio Giulio Andreotti in agosto, con l’ordine di smantellare le Br. Il generale obbedisce. Ma va oltre. Recupera persino il memoriale di Moro, dove sono trascritti gli interrogatori del presidente della Dc in quella che rimarrà scolpita come la notte della Repubblica. Quei fogli sono tutti? Un giornalista di nome Mino Pecorelli scrive di no. Finirà ucciso. E fino al 1990 non si saprà niente di ufficiale di quelle carte, quando un muratore dietro un tramezzo ne troverà altre, nello stesso appartamento perquisito 12 anni prima dall’antiterrorismo di Dalla Chiesa. Resterà per sempre il mistero su che cosa realmente accadde in via Monte Nevoso a Milano nel 1978 e che cosa spinse il comandante a correre, nel cuore della notte, fino a casa di Franco Evangelisti, braccio destro di Giulio Andreotti. Nel 1979, poi, gli uomini di Dalla Chiesa bloccano Patrizio Peci, il capo della colonna torinese dei brigatisti. Il generale lo porta all’apostasia. E chiude i conti con i rivoluzionari.
Ma in Italia il successo si paga. Il generale viene estromesso dai giochi. Scivola pure su una buccia di banana: nel ’76 ha presentato la richiesta di affiliazione alla P2. Ma fino al 1981 (quando spuntano gli elenchi) nulla trapela. È una macchia che peserà come un macigno nella morale di una figura così alta per l’Arma e per il Paese. Curiosamente, magari, fa più notizia la sua richiesta di affiliazione (mai accettata) che l’aver trovato in quelle liste di Castiglion Fibocchi tutto lo Stato maggiore dei militari, capi dei servizi inclusi. (...) Certo, Dalla Chiesa è cocciuto. (...) Accetta persino l’offerta fattagli dal ministro Virginio Rognoni, in nome del presidente del Consiglio Giovanni Spadolini, di andare a dirigere la lotta alla mafia a Palermo. È il 1982. Sono stati uccisi Mattarella e La Torre. (...) Gli promettono poteri speciali che non arriveranno mai, come confida a Giorgio Bocca in un’intervista che diventa testamento.
Cos’accade in quei 100 giorni a Palermo, allora? Nulla. Cioè tutto. L’ex generale con la Virgo fidelis stampata nel cuore si è scontrato contro un muro di ostilità strisciante e velenosa. (...) È un prefetto e l’etichetta impone anche le relazioni istituzionali. Solo che in alcuni posti chiave della Regione ritrova vecchie conoscenze, nomi altisonanti su cui aveva indagato tra il 1966 e il 1973 quando era impegnato, proprio a Palermo, in funzione antimafia. (...) La mafia inizia ad ammazzargli una persona al giorno o giù di lì. (...) Conosce Palermo e la Sicilia. C’è la mafia che sta cambiando pelle. E ci sono quelli che la coprono. C’è un sindaco, Nello Martellucci, che dice al Tg2: «La lotta alla mafia non mi riguarda, la mafia è opera di alcune migliaia di scriteriati, i legami tra mafia e politica sono un’invenzione del neocolonialismo continentale». Le figlie del generale (mi piace chiamarlo così, più che prefetto) faranno portare via dalla camera ardente la corona del presidente della Regione, Mario D’Acquisto, che si è opposto alla concessione dei poteri speciali perché così «si lede l’autonomia siciliana». Il figlio di Dalla Chiesa, Nando, si sfoga: «I mandanti vanno cercati nella Democrazia cristiana siciliana». Fa i nomi all’Europeo: Martellucci, D’Acquisto, Lima, Ciancimino e Nicoletti. Rileggerli fa pensare. Giulio Andreotti dichiara che non esistono democristiani collusi con la mafia. Il Divo... Carlo Alberto Dalla Chiesa non la pensa così. Dagli anni 40 quando era volontario nel Comando forze repressione banditismo a Corleone. Già allora aveva scoperto che la mafiaabbandonava il latifondo per investire nel cemento. (...)
Questo ricorda nell’estate del 1982, isolato nella sede prefettizia. Ripensa a quando è tornato in Sicilia, nel 1966. Comandante della Legione carabinieri. In sette anni assicurò alla giustizia 86 capi mafia. Erano i tempi dello scempio edilizio. Da viale Lazio a Punta Raisi. Chi non era d’accordo veniva zittito, se insisteva finiva nel muro di un condominio. Alla Commissione antimafia, denunciò le storture del piano regolatore: facendo il nome di Vito Ciancimino. Nel 1970! Illustrò una mappa dettagliata del controllo mafioso sul territorio. Segnalò che la mafia si era già immessa pesantemente nel mercato della droga: da snodo si era fatta produttrice. E adesso, dieci anni dopo quelle denunce, dopo aver affrontato e sconfitto la minaccia terroristica, rieccolo a Palermo. (...)
Stavolta non è come contro i brigatisti. È peggio. Si scopre solo. E la mafia lo sfida: durante la sua permanenza in città si contano 17 omicidi in luglio e 24 in agosto. (...) I soldi li porta l’eroina. La polvere consumata negli Stati Uniti ha un gusto siciliano (il 30% nel territorio federale, l’80% nel consumo di New York, 800 miliardi l’anno). Così è sotto gli Spatola-Inzerillo. Per il rifornimento della morfina base, negli anni 70, c’è una cosca specializzata nei contatti con i gruppi politico-militare-criminale in territorio turco, libanese e siriano. Da lì arrivano anche le armi. I mafiosi acquistano kalashnikov in Bulgaria, li barattano (in parte) in Libano, nei campi dell’Olp, si fanno mandare morfina. La raffinano nelle masserie. La immettono nella direttrice Palermo-Roma-Milano. Ma i soldi li fanno in America.(...) I profitti della droga, canalizzati da Michele Sindona, sono stati reinvestiti nella finanza e nel settore edilizio. Quattro famiglie si spartiscono l’appalto delle 344 esattorie dell’isola, con prelievo del 10% (3,3% è la media nazionale). Dalla Chiesa lo sa. (...)
Bisogna capire cos’è Palermo in quei mesi. Una città in crisi (settima per popolazione, 71esima per reddito pro-capite), con 100mila disoccupati e 120mila precari su un totale di 800mila abitanti. Ma gioiellieri, pellicciai e ristoratori parlano di grande annata. (...) Dalla Chiesa studia le carte che gli passa un magistrato, Giovanni Falcone (40 anni) che ha mandato a giudizio Spatola e soci, ricostruendo il giro legato all’eroina. Svelando i segreti inconfessati degli appalti. E quando toccano gli appalti muoiono. Tutti. Il generale è stato spedito da Roma per affrontare l’emergenza. Senzamezzi. Dal 1° gennaio 1981 ci sono stati 135 omicidi, 35 persone sono scomparse. Il problema però non è Palermo. È Roma. Dove certi siciliani avanzano nel Consiglio della Dc: c’è Lima e ci sono nomi eccellenti che figurano nei documenti in mano al prefetto. Il 12 maggio 1982 la Guardia di Finanza viola il santuario, l’esattoria dei cugini Salvo. Si pensa allo zampino di Dalla Chiesa. Lui cerca di ostentare normalità. Gira in taxi. Si fa vedere al mercato della Vucciria. Parla poco al telefono. Ma non basta. Carabinieri e polizia presentano il rapporto dei 162, spuntano i nomi dei Greco, dei Marchese, dei corleonesi Riina e Provenzano: 18 boss sono spediti al gabbio, 50 membri della mafia vincente finiscono all’Ucciardone. Sullo sfondo numeri da paura. Finanziamenti pubblici per Palermo: 5.250 miliardi di lire per opere pubbliche dalla Regione; 1.000 dal Comune per risanare il centro, 500 dalla Regione per case e irrigazione, 20 per «risanare» la costa, 200 miliardi per la base di Comiso. Chi gestisce questi flussi? La mafia irride lo Stato. Parcheggia cadaveri nelle auto davanti alle caserme dell’Arma.
Nessun potere speciale a Dalla Chiesa. Solo l’annuncio che la Finanza sta completando un rapporto su 3.192 mafiosi. Il 3 settembre va in scena l’esecuzione. I killer sono almeno sei. Sulla sua agenda, il 6 aprile 1982, il generale aveva scritto di Andreotti. «Gli ho dato la certezza che non avrò riguardo per quella parte di elettorato alla quale attingono i suoi grandi elettori. Sono convinto che la mancata conoscenza del fenomeno (…) lo ha condotto e lo conduce ad errori di valutazioni e circostanze ». No, non c’è nessun motivo per cui non doveva finire così.