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 2012  settembre 05 Mercoledì calendario

Son bastati pochi giorni dall’annuncio della candidatura di Matteo Renzi e dalla sua intenzione dichiarata di voler riequilibrare il partito anche se sarà sconfitto, per far esplodere una polveriera nel Pd

Son bastati pochi giorni dall’annuncio della candidatura di Matteo Renzi e dalla sua intenzione dichiarata di voler riequilibrare il partito anche se sarà sconfitto, per far esplodere una polveriera nel Pd. Tutti i maggiorenti, da Marini a D’Alema, vanno chiedendo regole stringenti per le primarie, come l’albo degli elettori a cui concedere di votare ai gazebo per evitare inquinamenti; e il doppio turno, in modo da far uscire un vincitore che abbia più del 50% dei voti. Ma il siluro più insidioso lo lancia dalla festa del Pd Beppe Fioroni, che intima a Renzi di dimettersi entro il 28 ottobre, perché i sindaci di capoluoghi sono ineleggibili in Parlamento se non lasciano l’incarico sei mesi prima della fine della legislatura. «E se Matteo non si dimette vuol dire che corre alle primarie in cerca di visibilità, visto che non è possibile che faccia il premier senza essere parlamentare». Con una postilla al vetriolo, contro «queste fantomatiche primarie»; che, se Renzi non si dimetterà da sindaco, «verranno lette solo come una gara di posizionamento per guadagnarsi un posto al sole». Insomma la sensazione palpabile è che sia scattato un fuoco concentrico dopo l’exploit di Renzi solo contro tutti, ben stigmatizzato da D’Alema sotto la pioggia battente di Reggio Emilia: «Ha litigato con tutti, con Bersani, con Vendola, con la Bindi, con Casini e noi abbiamo bisogno di una persona che unisca». Ma la risposta colpo su colpo dei big arriva anche in coincidenza con i primi sondaggi, che danno la partita aperta, con Bersani al 40%, Renzi al 28% e Vendola al 25%, come l’Ipr, ma anche in alcuni casi un possibile testa a testa tra il segretario e il sindaco di Firenze. Dunque non c’è da sorprendersi se, malgrado provenga da una tradizione moderata e dalla fila degli ex Ppi e della Margherita, il sindaco di Firenze non sia sostenuto da Fioroni, Letta, Bindi o Franceschini. Convinti, malgrado i maldipancia tenuti ben nascosti, che Bersani garantisca non solo più solidità e affidabilità, ma anche gli equilibri interni. Non a caso la Bindi, reagendo ad una richiesta dei «giovani turchi» bersaniani (Orfini, Orlando e co.), chiede al segretario di pronunciare «una parola chiara sul tema cruciale del rinnovamento della classe dirigente». Perché «chiedere che nessun ministro dei governi Prodi, D’Alema e Amato entri nel prossimo esecutivo accredita l’immagine di un Pd complice dei fallimenti dell’era berlusconiana». Renzi, che con una mossa a effetto ieri è volato alla convention di Obama, si è lasciato dietro uno strascico di polemiche e inedite convergenze tra leader spesso divisi tra loro, che la dicono lunga su quale sarà il clima nei prossimi mesi nel partito di Bersani che si candida a governare il paese. Il leader è visibilmente preoccupato dalla piega che stanno prendendo gli eventi e dice che «ora bisogna parlare di lavoro, che è la priorità numero uno». Ma le intemerate del rottamatore hanno sortito pure l’effetto di smuovere le acque innescando una sorta di scontro generazionale nel Pd. La giovane Debora Serracchiani, area Franceschini, se la prende con D’Alema che «se non sbaglio ha perso e all’estero chi perde si ritira. E quindi è meglio che non dia consigli e giudizi sprezzanti a Renzi, perché è giunto il momento che vecchi leader facciano un passo indietro e facciano i tutor dei giovani. Ma non vedo ora nel Pd padri nobili disposti a farlo». Riaprendo così lo scontro sul limite dei tre mandati senza deroghe, caldeggiato dai «rottamatori». Con l’argomento che «nel 2012 c’è bisogno di una classe dirigente diversa che non abbia assunto impegni di governo in precedenza». E un assist a Renzi lo dà il prodiano Sandro Gozi, stoppando l’albo delle primarie «che contrasta con la ricerca del massimo coinvolgimento degli elettori». JACOPO JACOBONI Dall’antiberlusconismo all’antirenzismo, svolta dei dirigenti della sinistra; si deposita qui il copyright. S’è mai visto a memoria recente un concentrato di demonizzazioni, offese, sufficienze, paternalismi, sopracciglia alzate, pari a quelli toccati al sindaco di Firenze in questi mesi, e via via sempre più in queste ore? Asino, berlusconiano, inadatto a governare, giovanotto, juke box delle banalità, populista, manca solo che passino a considerazioni fisiche o razziali e saremmo a posto. Se sei a corto di nemici, può sempre risollevarti il Nemico. Silvio era ideale, accontentiamoci di Matteo, che pure ha poco a che fare - a dispetto del luogo comune - col Cavaliere. La morfologia dell’antirenzismo si ricava da alcuni canoni teorici da cui poi discendono definizioni, verbi, formulette da bignami post-togliattiano utilizzate per liquidarlo. Quando Matteo propose alcune linee del suo programma alla Leopolda - le «cento idee» - il segretario del suo partito Pierluigi Bersani osservò che Renzi è il vecchio, non il n u ovo, «non scambiamo per nuove idee che sono un usato degli anni ottanta». Subito dopo, in forma linguisticamente neanche tanto subliminale, gli diede del somaro ma senza neanche darglielo, col buffetto dello zio al nipote: «Non pensare che un giovane per andare avanti deve scalciare». È stato quasi sempre così, quella di Repubblica «populista di centro» - risulterà essere una delle etichette garbate, col senno di poi. Ieri Massimo D’Alema, che si percepisce dinanzi a Renzi come un mancato direttore dell’Economist (con Berlusconi), gli ha dato dell’unfit, nella formula obliqua della litote, «non mi sembra adatto a». Poche ore dopo Nichi Vendola l’ha definito «un juke box ambulante delle banalità, che sceglie Marchionne». E qualche giorno fa anche Pier Ferdinando Casini ha osservato che «fa ridere immaginare di mandare Renzi, non Monti, ai vertici dalla Merkel». Ecco, vecchio, oppure banale, o amico degli industriali, o ridicolo e poco autorevole, sono considerazioni disparate ma in fondo convergenti nel disegnare il ritratto di un parvenu della politica, che va rieducato, non potendolo espellere o radiare. E se si scende da queste vette gerarchiche, l’antirenzismo diventa poi una parodia di guerra civile dei poveri. Rosy Bindi, che suscitava grande simpatia quando veniva machisticamente insultata dal Cavaliere, ha dato a Renzi sostanzialmente dello sfascista e del populista, «può anche affascinare, come Grillo o Berlusconi, ma alimenta lo sfascio». Beppe Fioroni lo invita cortesemente a fare il capo dei vigili di Firenze, «faccia bene il sindaco e sistemi il traffico». Franceschini lamentò a suo tempo, riferendosi a Matteo, che «nel partito ci sono troppi galli». E questi sono i cattolici, anime pie; come Renzi, peraltro. Pensate i colleghi quarantenni, che lo odiano, ovviamente, più di tutti. Fassina gli disse che è «un sindaco per caso ed ex portaborse», offendendo l’onesta categoria cui anche lui diede lustro; Matteo Orfini che «alcune idee di Renzi mi ricordano i paninari» (tra l’altro gli Anni Ottanta sono in via di rivalutazione); la Serracchiani che «Renzi ha già tutto lo staff di Fininvest con sé»... S’è svegliato anche Beppe Grillo, con la vecchia battuta di Fortebraccio su Nicolazzi, «hanno bussato alla porta e non c’era nessuno. Era Matteo Renzi». Ma è molto peggio, Matteo, avere contro tutto l’ex Pci e parte dei cari amici democristiani.