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 2012  settembre 05 Mercoledì calendario

DAL NOSTRO INVIATO

AZAZ (Siria settentrionale) — Strade ingombre di macerie nel centro; una quindicina di carcasse di carri armati bruciati; abitazioni danneggiate e abbandonate; sui muri anneriti dalle fiamme della moschea maggiore scoperchiata dalle bombe è appeso un grande lenzuolo biancastro con i nomi di una quarantina di shahid, i martiri delle brigate partigiane uccisi combattendo contro i soldati di Bashar Assad. Praticamente ogni sera dopo le nove arrivano i Mig23 e bombardano, quasi sempre a casaccio. Una volta tocca al quartiere del panificio, un’altra ai capannoni delle fabbriche alla periferia, persino le scuole piene di povera gente senza casa non vengono risparmiate. Comincia qui, tra le rovine dell’ultima città siriana prima del posto di confine di Killis con la Turchia, il tratto finale dell’esodo degli abitanti della provincia settentrionale di Aleppo verso la salvezza nei campi profughi all’estero.
La storia è ormai vecchia. Quasi 18 mesi di guerra civile e attacchi impuniti dell’esercito lealista super armato contro la popolazione sunnita in rivolta sono anche il racconto di gente in fuga, di intere città svuotate, soprattutto di famiglie abbandonate a loro stesse che, prima di osare l’atto estremo di scappare fuori dai confini nazionali, hanno trovato rifugio temporaneo presso parenti e amici in altre zone del Paese. Città che si riversano verso le campagne, ma anche intere comunità rurali che a loro volta scappano verso le zone urbane. Era il caso di Aleppo sino a che non si è cominciato a combattere anche tra i vicoli del suo centro medioevale tre mesi fa. Da due milioni e mezzo i suoi abitanti erano diventati oltre quattro, ora pare siano scesi a meno di due. «Ci sono oltre due milioni di profughi interni di cui sappiamo molto poco o nulla», sostenevano un mese fa i capi delle maggiori brigate rivoluzionarie incontrati sulle barricate di Eriha, Idlib e tra i villaggi sulle colline di Jebel al Zawyha.
Ora il tema profughi torna alla ribalta dopo che ieri le Nazioni Unite hanno riportato nuovi, gravissimi conteggi relativi soprattutto a quelli scappati all’estero. Il loro numero ha toccato quota 100.000 nel solo mese di agosto su di un totale di 235.368 segnalati in 17 mesi. Il dato è relativo solo a quelli registrati ufficialmente. Sembra infatti che vi siano decine e decine di migliaia di illegali. In Turchia, per esempio, la cifra ufficiale per quelli distribuiti in una dozzina di campi è di 80 mila, ma la stampa nazionale ne riporta sino a 120 mila. Tanto che lo stesso governo di Ankara è stato costretto ultimamente ad alzare la vecchia «linea rossa» di 100 mila oltre la quale aveva minacciato di lanciare operazioni militari per la creazione di una «zona cuscinetto» in territorio siriano. Tuttavia, bastano le sole cifre ufficiali per cogliere il senso dell’urgenza. Sempre secondo l’Unhcr (l’agenzia Onu incaricata della questione profughi), sono ormai 77 mila in Giordania, dove le condizioni tra le tende nel deserto sono tra le più estreme; 59 mila in Libano a rendere ancora più tese le frizioni tra sciiti e sunniti locali; e quasi 19 mila nell’Iraq a sua volta destabilizzato dal permanere dello scontro interno innescato dall’invasione americana del 2003 e oggi alimentato dal braccio di ferro tra Iran e Arabia Saudita. A ben vedere dunque, in un solo mese gli espatriati sono stati oltre un quarto del totale accumulato dal marzo-aprile 2011. «Se fate il conto, si tratta di un numero spaventoso, incredibile. Illustra una crescita significativa nel numero di profughi in soli 30 giorni e denuncia il peggiorare della situazione nel Paese», ha esclamato ieri la portavoce dell’Unhcr, Melissa Flaming.
Viste da Azaz, le sue parole assumono significati sinistri e drammaticamente concreti. Ci passa gente spaventata, spesso priva di tutto, senza più contanti, possedimenti, o speranze. Da tre o quattro settimane la truppe lealiste hanno aumentato l’utilizzo dell’aviazione. Gli attivisti della brigata locale (ha il nome roboante di «Tempesta del nord») una settimana fa hanno abbandonato il loro centro di accoglienza per i civili tra le palazzine di un istituto tecnico perché era stato bombardato. I più poveri si accampano allora negli edifici pubblici ancora in piedi. La maggioranza raggiunge invece la zona a ridosso del confine di Killis chiamata «i garage». Ci sono infatti tre grandi capannoni aperti sui due lati dove circa 8 mila persone attendono di poter passare in Turchia. Vecchi, donne, bambini dormono sul pavimento attrezzato con stuoie e coperte impolverate. Alcune centinaia di famiglie sono qui da oltre venti giorni. «I turchi fanno del loro meglio per aiutarci. Ma obiettivamente non sanno più dove mettere tutta questa gente.
Il problema è che qui domina il terrore. Solo cinque giorni fa i Mig lealisti hanno bombardato a 500 metri dal confine», spiega il «dottor Yussef», un chirurgo di Aleppo che parla un poco di italiano e si è preso la briga di coordinare i visti. In Turchia i campi allestiti oltre un anno fa sono strapieni. Abbiamo visitato quello di Yayladagi, uno dei più vecchi eretto presso Antakia, dove il numero limite di 2.500 occupanti è stato raggiunto da un pezzo. Il più recente posto a Orfa, 300 chilometri più a nord, ha accolto in pochi giorni quasi 8 mila nuovi arrivi. La politica turca mira comunque ad isolare i profughi sunniti siriani dagli sciiti alauiti locali, che in generale sostengono Assad. Ankara teme che le ripercussioni del conflitto oltreconfine vadano ad innestarsi sulle tensioni interne, prime tra tutte quelle antiche con i curdi.
Lorenzo Cremonesi