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 2012  settembre 02 Domenica calendario

Il Re Sole? Sperperava più della Grecia di oggi - Si conclude, con la terza pun­tata, l’ excursus storico di Ezio Savino sulle origini del debito pubblico, la malattia più grave che oggi colpisce gli Stati (soprattutto quelli europei)

Il Re Sole? Sperperava più della Grecia di oggi - Si conclude, con la terza pun­tata, l’ excursus storico di Ezio Savino sulle origini del debito pubblico, la malattia più grave che oggi colpisce gli Stati (soprattutto quelli europei). I precedenti artico­li sono usciti il 30 agosto e ie­ri, 1 settembre. *** «Lo Stato sono io!», diceva Luigi XIV, il Re Sole (1638 ­ 1715). Il suo Stato, la Francia, «non pagava né i ban­chieri, né i mercanti, dai quali ave­va preso a prestito somme ingenti. Accordava a queste categorie so­sp­ensioni di pagamenti e scudi pro­tettivi nei confronti dei loro credito­ri. Ma era un sistema che destabiliz­zava il commercio, fino al caos. Non circolava più denaro. Il credi­to si era volatilizzato. Il discredito, invece, galoppava. I traffici agoniz­zavano. Iconsumieranoridottidel­la metà. Il popolo era affranto. I con­tadini affamati, messi davvero ma­le... ».L’analisi è nelle Riflessioni po­litiche sulle finanze e il commercio , dell’economista Nicolas Dutot (1684-1741). Citandola su Le Monde , Sylvie Arsever af­ferma che il quadro, pur riferendosi alla Francia di fine ’700, calzerebbe a pen­nello anche alla Grecia o alla Spa­gna di oggi. Siamo grati all’articolista di non aver aggiunto l’Italia. Dutot metteva il dito nella piaga. Il marcio stava nel fatto che il debito pubblico del Re Sole era un abisso (la causa scatenante erano le tambureggianti guerre di conqui­sta e di grandeur ) e che, invece di rimpinguare le casse, il sovrano in­solvente faceva il gioco delle tre ta­volette con i suoi creditori. La mo­neta forte, oro e argento, si era vola­tilizzata. Didot era uno scienziato, pioniere dell’economia quantitati­va: aveva raccolto nella sua opera statistiche impressionanti sui prez­zi e sui cambi. La sua teoria era che bisognasse iniettare nei mercati cartamoneta, più pratica dei pezzi metallici, per favorire la liquidità contante, propellentedelcommer­cio e del benessere. A patto che il va­lore delle banconote fosse salva­guardatodall’ancoraggioaunteso­ro statale, e non ondeggiasse sul ca­priccio dei regnanti, com’era vezzo nell’antico regime.Per far fronte al­le spese, il re si faceva prestare soldi a breve termine. Per ripianare il de­bito con gli interessi, tartassava la gente. Sul reddito, gravava la «ven­tesima »; sulla proprietà fondiaria, la «taglia»; c’erano poi i dazi, come quello sul sale; un residuato del me­dioevo era la corvée royale , untribu­to in forma di manodopera presta­ta gratuitamente alla corona. Il sistema faceva acqua per­ché ammetteva grandi evasori istituzionali. La nobiltà e il clero erano esentasse: porgevano omaggi e doni al trono, ma inmanieraoccasio­nale, saltuaria. Risul­tato: la mannaia fisca­le calava sui soliti, la par­te più attiva del Paese. Quale fosse il marasma del debito pubbli­co, èchiarodaunbilanciopubblica­to nel 1760, sotto Luigi XV, succes­sore del Re Sole: entrate, 286 milio­ni di lire francesi; uscite, 503 milio­ni, compresi 94 di interessi sul debi­to, un disavanzo da far sembrare una bazzecola il nostro tra Pil e defi­cit. Il rapporto era firmato da Étien­ne de Silhouette, controllore gene­rale delle finanze. Era un tecnico con all’attivo uno stage in Gran Bre­tagna per studiare i metodi fiscali della concorrenza.Proprio dall’as­setto inglese trasse il principio di spremere anche le categorie salva­guardate, aristocratici ed ecclesia­stici. Escogitò un redditometro: si versava in base alla frotta di servito­ri, ai beni di lusso, alle proprietà te­r­riere e persino al numero di porte e finestre che ornavano le facciate delle dimore. I monili andavano fu­si in lingotti. Si trovò contro la casta intera, compresi intellettuali come Voltaire. Tenne duro otto mesi, pri­ma di gettare la spugna, inseguito dai sarcasmi del bel mondo che, an­cora una volta, l’aveva fatta franca. Lo si tacciò di spilorceria, di me­diocre piccineria. Il suo nome di­venne sinonimo di robetta a buon mercato. Non si avevano i mezzi per farsi fare un ritratto a olio o un busto di marmo? Si ripiegava sulla silhouette , il profilo del volto rita­gliato su un semplice cartoncino nero. Però, come spesso accade nel­la storia della tassazione, gli soprav­visse il suo improbabile tributo «sul­l’aria » che si poteva godere dalle aperture murarie. La tassa sulle finestre restò a registro an­che dopo la rivoluzione libertaria. Le armate di Napoleone la diffuse­ro in Italia. Da qui l’abitudine di affrescare false impo­ste sulle facciate, a salvaguardia del portafoglio del contribuente. Alle strette, la corona francese improv­visò altri puntelli contro la banca­rotta. Tra questi,la vendita degli«uf­fici », le cariche pubbliche. I privati potevano diventare, a pagamento: agenti delle tasse; gabellieri, cioè addetti alla riscossione dei diritti doganali e delle imposte indirette sui prodotti colpiti,come l’alcol;te­sorieri, ufficiali che versavano gli in­troiti nelle casse dello Stato. Il mix di pubblico e di interessi privati è ad alto rischio. Maneggiare un sac­co di denaro altrui è un’occasione che fa l’uomo ladro.Gli addetti al fi­sco giocavano con la cassa. Riscuo­tevano il dovuto, ma si prendevano il loro tempo, facevano lavorare in proprio le somme, a usura, prima di cederle allo Stato. Dilazioni, sconti, favoritismi ad amici e parenti non si contava­no. Se si aggiunge cheiministeridel­la marina e della guerraeranoautoriz­zati dal re a presentare bilanci truccati per sostene­re le campagne, il quadro è comple­to. Per far saltare i privilegi (e la te­sta del sovrano) ci volle la rivoluzio­ne, da cui sorse l’astro napoleoni­co. Il Bonaparte razionalizzò il debi­to statale, mettendolo a pareggio in tempi record. Il suo criterio era l’equadistribuzionedelcarico.Por­tò a regime il catasto, per gravare su fondi terrieri e immobili anche dei ceti immuni. La taxe de citoyen , sul­la persona, era del valore di tre gior­nate lavorative. Noi sgobbiamo più di sei mesi l’anno, per placare il fi­sco. Tra le proposte odierne di risa­namento, abbiamo la dismissione dei beni pubblici: caserme, litorali demaniali, aree inutilizzate. Napo­leone fu un precursore, fatte salve le proporzioni che, nel suo stile, era­no inaudite. Per finanziare le galop­pate in Europa, l’imperatore ven­dette al presidente americano Jef­ferson la Louisiana, oltre 2 milioni di chilometri quadrati, un quinto dell’attuale territorio statunitense, 3 centesimi l’acro, per un totale di 11 milioni di dollari, che raddoppia­rono con i gravami dell’estinzione del debito.Nell’Europa delle nazio­ni, degli imperi, delle rivoluzioni in­dustriali, del colonialismo e delle guerre, nel duello tra Stato e debito pubblico entravano in gioco le ban­che centrali, con conflitti d’interes­se impossibili da districare. I Paesi che, come il nostro, acquisivano unità territoriale e politica, eredita­vano anche i deficit delle sparse membra dalla cui fusione erano sorti. Oggi tutto è globale. Scricchiola una Borsa agli antipodi e l’intero ca­stello vacilla. «La mano che dà è sempre sopra a quella che riceve», diceva Napoleone. Che di banchie­ri e affaristi del soldo, pronti a pre­stare ai politici, pensava: «Il denaro non ha patria. I banchieri non han­no né patriottismo, né decenza. Il loro unico obiettivo è il profitto». (3. Fine)