Massimiliano Castellani, Avvenire 5/9/2012, 5 settembre 2012
TUTTO TRANNE CHE FAIR PLAY FINANZIARIO
Tutte le società di calcio lo sbandierano, tutti lo temono, quasi nessuno intanto lo prende sul serio e tanto meno è in grado di attuarlo. Stiamo parlando della chimera del fair play finanziario. «Se Platini fosse il vero Savonarola del calcio europeo, allora la maggior parte dei grandi club dal momento in cui entrerà in vigore la normativa del fair play finanziario non potrebbero più iscriversi ai loro campionati e tanto meno alle competizioni internazionali ». Giudizio asciutto, negativo, ma estremamente realistico quello espresso da Marcel Vulpis, direttore di “Sporteconomy”.
La formula, di cui Platini si sente depositario e che pretende da tutti è semplice: «I costi devono essere sempre coperti dai ricavi». Il problema è riuscire a metterla in pratica e lo step ulteriore, «portare i bilanci al punto di pareggio», al momento, è mera utopia. Il tempo però, come in campo, scorre in fretta e se dal 2012 al 2014, sarà ancora possibile accumulare un deficit massimo di 45 milioni, già nel biennio 2015-2017 si dovrà scendere sotto il tetto dei meno 30 milioni. L’ora “X” del calcio con i conti in regola e senza più sfumature di “rosso”, è fissata per il 2018. A questa data sarà garantito un margine di perdite fino a 5 milioni, ma l’ordine tassativo per tutti sarà: «portare il bilancio in pareggio».
Per molte squadre sarà più facile arrivare alla vittoria del titolo nazionale o della Champions, piuttosto che centrare l’obiettivo del fair play finanziario. Certo, colpa anche di un mercato che soffre ancora di “doping amministrativo”, in cui esiste un Paris Saint Germain che può permettersi di offrire al Real Madrid 150 milioni per acquistare Cristiano Ronaldo. «Ma gli esempi si sprecano – spiega Vulpis –. In Premier i campioni in carica del Manchester City di Roberto Mancini, hanno un costo del lavoro che supera del 110% il valore della produzione netta. Questo vuol dire che per ogni sterlina di fatturato, ne spendono 2 per investimenti operativi».
Il City a fronte di un fatturato di 175 milioni di euro (più 22,5%), si ritrovano con un costo del personale per 199 milioni di euro e ammortamenti per la rosa dei giocatori che si aggira sui 96 milioni. Cifre pazzesche, che non possono stupire certo l’azienda calcio Italia che nell’ultimo decennio, 2001-2011 è stata in grado di accumulare perdite per 2,5 miliardi di euro. Un rosso, per niente relativo. Le nostre società spendono e spandono e si stanno calmando un po’ solo ora che i venti di spread oscillano costantemente tra i 400-500 punti. Delle 20 società di Serie A, solo cinque possono considerarsi già in regola con i parametri previsti dal fair play finanziario: sono Napoli, Udinese, Lazio, Catania e Palermo. «Al Napoli potremmo dare lo scudetto del fair play finanziario – dice il direttore di Sporteconomy –. Il club del presidente De Laurentiis da cinque stagioni infatti è in regola e ha presentato a bilancio un utile di 11 milioni di euro. Bene anche l’Udinese che merita un premio per lo scouting operato da patron Pozzo che sta esportando il modello friulano in Spagna e Inghilterra dove ha rilevato la proprietà del Granada e del Watford». Due modelli di “club virtuosi”, in un contesto in cui la virtù pare sia stata bandita. «Il doping amministrativo è tuttora in voga dai topclub, fino alle piccole società. Da noi le tre grandi sorelle di Juve, Milan e Inter dovrebbero ridurre ancora del 30% gli ingaggi dei propri calciatori. Il vero “virtuosismo” sarebbe scendere sotto il 45% nel rapporto tra salari e ricavi, invece la media attuale si attesta a un passo da quel 70% considerato pericoloso dal sistema di monitoraggio della Uefa».
Al di là degli appelli però, il governo del calcio europeo continua a chiudere un occhio sulle follie finanziare dei colossi del pallone, i quali, forse pensano: o che siano virtuali o di poter dribblare i paletti del fair play finanziario.