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 2012  settembre 03 Lunedì calendario

MATTEO GARRONE E LA SUA TANA CREATIVA


«CIAO MATTEO sono qui all’ingresso». «Vai dritto, la prima a destra, vedi un poster gigante e te lo lasci sulla sinistra, fai ancora 50 metri e poi ti viene a prendere Andrea».
Roma, eccomi agli Studios ex De Paolis sulla Tiburtina, e il cinema nel cinema di Matteo Garrone. Non fidatevi delle indicazioni, ma del regista: sta per portare in sala Reality (in uscita il 28 settembre), con cui all’ultimo Festival di Cannes ha bissato il Grand Prix di Gomorra, ricevuto nel 2008. Fa caldo, ma non troppo. È il suo studio, ma non troppo. La sensazione è strana, rivelatrice: nel nostro cinema, Garrone è una casetta in Canadà. Un’alterità felice, e premiata. Per saperlo non serve scorrere palmarès e filmografie, basta poter vedere il luogo in cui pensa e lavora: nell’architettura industriale degli Studios, una casina strappata alla campagna, che apparentemente non c’entra nulla. Per dirla in latino, un locus amoenus, un hortus conclusus. Per ridirla con Garrone, «il mio studio all’interno degli Studios». Semplicemente. Ci tiene a dirlo, come scusa non richiesta, alla fine del nostro incontro: «Non sono un intellettuale» (nonostante sia figlio di un critico teatrale e di una fotografa, ndr). Ma nessuno gliel’ha chiesto, e nessuno si sognerebbe di chiederglielo, vedendo i suoi film.

Garrone è oltre qualsiasi classificazione: tennista di talento, pittore di grande talento, regista di assoluto talento. Ha scelto il cinema, ma ha più di una porta aperta alle spalle, e quella che ci spalanca davanti: scalzo, sorridente, ci presenta il suo assistente Andrea. Qualche quadro l’ha appeso, insieme ai poster dei suoi film: Gomorra, ma anche Estate romana (2000) e Primo amore (2004). Da fuori, vengono flebili i rumori delle poche maestranze al lavoro, le risate che accompagnano una sigaretta: «Oggi è quasi impossibile essere se stessi se non nei termini del mondo che ci circonda», Matteo rispolvera Flaiano, e la citazione sembra scritta per lui. Sulla scrivania, i copioni e gli appunti di progetti abortiti, accantonati e realizzati: quello di Reality non c’è, si chiamava La grande casa, e il suo stampatello ce lo ricorda. Dentro, immagini in divenire, citazioni e mozzichi di creatività: «Gli appunti che a mano a mano... le idee, le cose che mi vengono dei vari film». Scorre le pagine: lo stampatello ha i puntini sulle “i”, il futuro sullo schermo un passato fatto di memento e istruzioni d’uso, voli e ricadute su carta. Stralci dal romanzo di Walter Siti Il contagio, e poi “il virus dell’immagine che contamina la società”, “il desiderio mimetico” e la creatività di massa che Matteo mutua da Goffredo Fofi, perché «oggi tutti vogliono scrivere...». Quel quadernino è una spugna, sulla scrivania si posa il mondo là fuori e diventa il mondo di Garrone e dei suoi film, come Reality che «attraversa il virtuale e racconta il reale». Detto, fatto: Matteo i film non se li scrolla di dosso, soprattutto, non molla le persone con cui li ha fatti. Gli suona il cellulare: «Ho poco tempo, sto facendo un’intervista, ma passa, mi fa piacere». A chiamarlo è Nello Iorio, il Massimone di Reality: altre tre telefonate, poi Nello arriva con due amici, e Matteo è contento, e timido insieme. Qualcosa da bere, il sorriso che accoglie, e ancora quella sensazione che rivela. Lo studio è una tana, la tana di un regista con i Grand Prix alla parete e i David di Donatello nella vetrinetta, le valigie di un lungo viaggio, magari da fermo, accatastate sull’armadio e, concedetecelo, la polvere dei sogni. Una tana, dove custodire quell’arte che «è il vizio più irresistibile di tutti. Più della droga», dice Matteo ridendo. Il protagonista di Reality, un pescivendolo napoletano irretito dal Grande Fratello, «diventa artista perché intorno c’è qualcuno che gli dice: “Dài, che ce la fai”». Giurereste che lui non ne ha avuto bisogno, che era predestinato all’arte, e non gli sono serviti né incoraggiamenti né pacche sulle spalle, eppure... «Dopo Gomorra mi si erano aperte due strade: o farsi prendere dalla megalomania se le cose fossero andate bene, o dalla depressione se fossero andate male. E in quel caso erano andate bene. Dopo un anno che giravo in tutto il mondo come un rappresentante, ho fatto fatica a ritrovare equilibrio e concentrazione: cercavo di fare un film ancora più forte e andavo incontro al disastro sicuro, perché mi stavo sempre più allontanando da me stesso, dal piacere di fare cinema».

Ora Matteo non sa ancora che farà, magari unirà un libro di James Ellroy a un saggio sui casi di omicidio più eclatanti di Hollywood. Di certo ha fatto Reality, dopo tante proposte di mafia-movie rispedite Oltreoceano e «dopo essermi accorto che stavo morendo, almeno artisticamente». E le tracce della rinascita sono su questa scrivania, in questo studio: pareti giallorosse, un sofà per sdraiare l’ansia di dirsi: «Beh, forse mi sto perdendo e non riesco più a ritrovarmi». E sono i luoghi a indicare la via: la scala di legno per salire alla sua casetta nel verde, dove ha pensato a un’altra casa, quella del Grande Fratello, The Big House. Visto che era già smantellata quella “vera” televisiva, Garrone l’ha ricostruita a Cinecittà, e su una sdraio al sole dopo un bagno in piscina (vedere, nel sommario a inizio giornale, la foto rubata dal set che il regista ci ha regalato) s’è ritrovato a pensare che «dopotutto non si sta tanto male». E così ha cambiato il finale di Reality: «In fondo è una sorta di paradiso artificiale anche questo, perché non finire qua?». Sui quaderni a righe, brandelli di sceneggiatura, spunti strappati alla cronaca e pronti da riversare su pellicola: non sono entrati in Reality gli echi di bunga bunga berlusconiano, come «le gemelline che scopano in due», ma è entrato l’appunto sulla «polverina d’oro che si posa su alcuni fortunati», tra i quali Luciano vorrebbe stare. «L’ho messa col giallo», e ne aveva evidenziata pure un’altra, fondamentale, presa in prestito da Guy Debord. «La società dello spettacolo l’avevo iniziato a leggere, ma poi... però quella frase... era perfetta. Andrea, ti ricordi qual era?». Non se la ricorda nemmeno l’assistente, e Matteo si cruccia: spalanca vetrinette, sfoglia faldoni e quaderni e sulla scrivania arrivano plichi di altre idee. Come Il racconto dei racconti e il progetto su Fabrizio Corona a lungo accarezzato e stoppato dalla «cronaca troppo invasiva». Il libro di Debord non si trova, ma a bussare è il mondo là fuori: sabato è prevista una partita a calcio tra cinematografari, appuntamento e indicazioni al telefono. Si gioca fuori porta, a Sora, e parlando con un compagno di squadra Matteo si schermisce. O forse bluffa: «Incasso male, sono un po’ fragilino, mica come te...». Altra risata, e la promessa di essere puntuale. Che anche sul campo fa sul serio, attento alla dieta com’è. Lo si capisce quando gli telefona la compagna, Nunzia.
«Amo’, vado a fare la spesa, che vuoi?».
«Prendi tante cose, petti di pollo...».
«Prendo la carne rossa da fare panata, che dici?».
«Amo’, tu mi tenti...».
Nunzia ride di gusto, e la dialettica carnivora finisce pari e patta: «Ok, prendo la tagliata».

Non crediamo sia solo una coincidenza, quella carne. È il Garrone che ti aspetti, e per convenirne basta aver visto i suoi film. Ci perdonino i vegetariani: sono film necessari, ovvero carnali, materici e, come direbbe il Calvino delle Lezioni americane, pesanti. Si sporcano le mani, devono sporcarsi le mani, per afferrare i brandelli di realtà, cucinarli in studio, mangiarli sullo schermo: a Cannes, Garrone vince e rivince, ma non con la nouvelle cuisine; la sintesi è una tagliata - scommettiamo - cotta al sangue. E la sintesi è anche il Luciano protagonista di Reality, interpretato dall’ergastolano Aniello Arena, che si “ammala” di GF. «Mi sono identificato molto, lo capisco. Anche io ho le mie seduzioni, anche tu, chiunque: possiamo pure pensare che quello sia un personaggio che non ci riguarda, perché fa comodo pensarlo. Ma lui ha il Grande Fratello, io altre seduzioni, altre trappole». Anche dopo il secondo Gran Premio a Cannes? Matteo ride di nuovo: «E se dopo faccio una stronzata?». Richiama Andrea, cercano ancora quella frase di Debord, e di nuovo non la trovano. Il cellulare vibra, Matteo non risponde, rispulcia il quadernino, dà un’occhiata all’Oscar europeo nella vetrinetta per trovare un indizio, ma nulla. Forse è il contrappasso per aver mutato la società dello spettacolo di Debord nello spettacolo della società di Reality. Forse lui non la ricorderà più quella frase, forse l’ha dimenticata pure il suo quadernino. Ma non il suo film.