Angela Vettese, Il Sole 24 Ore 2/9/2012, 2 settembre 2012
OLAFUR RIPORTA IL SOLE
Un girasole di plastica, un fiore da mettersi al collo come una grossa spilla trattenuta da un laccio ma al contempo, voltandolo, un pannello solare capace di trasformarsi in una pila potente, che illumina bene un tavolo o un ambiente. Questo è l’ultimo prodotto di Olafur Eliasson, o meglio di uno studio in cui lavorano 30 tra designer, architetti e ingegneri e che è anche una scuola a tempo pieno per aspiranti artisti. Quel giocattolo è stato il protagonista della Biennale Architettura a Venezia nei giorni dell’inaugurazione.
Da ragazzo, appena dopo il suo diploma a Copenhagen (nato nel 1967, è islandese d’origine, danese per adozione) Eliasson si proponeva come un artista impegnato e fuori dal sistema. In realtà ha percorso tutta la strada canonica che da una buona galleria porta a un Padiglione nazionale a Venezia di qui a mostre in molti musei importanti, a una gigantesca retrospettiva al MoMA di New York poco dopo aver compiuto quarant’anni e a quotazioni mercantili stellari. Il ragazzo col codino che ballava la breakdance è diventato un capitano d’azienda consapevole del suo peso. Nonostante un tale successo, esploso dopo l’indimenticabile Weather Project alla Tate Modern di Londra – un sole finto ma attivo che ha trasformato il museo in una spiaggia – possiamo in effetti dire che è riuscito a non fare parte di quel mondo dell’arte separato dal mondo vero il cui paradigma è, per esempio, in scena a Kassel. Ma è dentro il canone delle arti visive comunque, che è incominciata la sua avventura.
«Ho iniziato a esporre in luoghi diversi dall’Europa», racconta. «Tre anni fa ho esposto quasi contemporaneamente a San Paolo, a Kiev e Addis Abeba e ho messo a fuoco il bisogno di capire come il mio lavoro poteva essere recepito e integrato in contesti così diversi. Pensavo che una persona su cinque nel mondo non ha acceso all’elettricità e si appoggiano al kerosene. Io ho lavorato ossessivamente con la luce e col suo lato simbolico, ma ho realizzato che poteva essere interessante anche lavorare sul suo versante pratico. Ho voluto fare qualcosa di spirituale e concreto al contempo, un oggetto che si porta dietro una narrazione. Così è nata questa torcia, testata fino a ora in un workshop a Monaco, poi ad Adis Abeba poi usando per la comunicazione la rete delle Olimpiadi a Londra. Ora lavoriamo con le organizzazioni non governative per Zimbabwe, Kenia, Etiopia. In ciascun posto del mondo la lampada ha un motivo diverso di esistere. Per esempio, un quotidiano economico indiano ne esaltava la capacità di "dare luce ai ricchi che non hanno elettricità", una condizione che in Europa è irreale ma là piuttosto frequente».
C’è da chiedersi perché, con tanti professionisti al suo fianco e con il gusto innato che lo distingue, questo piccolo sole sia così infantile e addirittura al limite del kitsch.
«Ho bisogno di un oggetto semplice, da vendere a un prezzo che lo renda più conveniente del kerosene. I miei nemici sono le compagnie di petrolio. Poi ho anche pensato a come ti senti con questa cosa in mano... le persone che lo usano sono soprattutto di due tipi, i bambini attorno agli 11 anni e le donne attorno ai 40, i primi per giocare di più, le seconde per allungare una giornata di lavoro con un rammendo o un ricamo. Dovevo fare un gioco e un gioiello».
Buon marketing: estetica balneare, capace di mettere tutti a proprio agio, all’opposto delle pietre filosofali care a Steve Jobs. Eppure Eliasson le continua a chiamare sculture.
«Qui a Venezia è un’opera d’arte, ad Addis Abeba è anche una lampada. Ma anche per loro può essere un’opera d’arte: il fatto di avere delle necessità pratiche non esime le popolazioni anche povere dal godimento degli aspetti estetici o anche spirituali di un oggetto».
Siamo comunque in un contesto in cui la riproducibilità è parte dell’essere opera, al contrario di qualsiasi enfasi sull’unicità.
«E se domani quest’oggetto venisse copiato da una compagnia cinese, o da cinque produttori concorrenti, questo sarebbe il mio successo: avere contribuito a diffondere la confidenza con i pannelli solari».
Ma allora entriamo nella discussa faccenda delle energie alternative: sono davvero meno inquinanti, a conti fatti? Richiedono una produzione che consuma energia, sono di plastica, sono difficili da smaltire una volta che il pannello abbia esaurito la sua carica.
«Per questo mi interessa molto calcolare che l’impatto ambientale sia davvero minore di quello del kerosene. Però il punto è anche un altro. La cellula solare comunque crea ancora molto scetticismo. La gente non crede che il sole carichi veramente le lampade. Ma quando abbiamo venduto 100 lampade, allora c’è una comunità più grande in cui la gente inizia a usare davvero il pannello solare anche per la casa. Per questo la sua moltiplicabilità è parte del suo essere un messaggio artistico. E ciascuno ti racconta poi la sua storia: un etiope mi diceva che la lampada gli potrebbe servire per mungere la sua mucca con la luce, ma lo fa da sempre al buio e non è un problema. Invecchiando, però, per lui è diventato un problema non inciampare, perché senza il suo lavoro la mucca morirebbe e la famiglia entrerebbe in una fase di stenti».
C’è da chiedersi allora in quante maniere diverse dovrebbe essere pubblicizzato e proposto, questo sole che dà energie tanto diverse.
«Alla Tate abbiamo fatto una performance in cui la gente camminava nel buio e vinceva la sua paura di perdersi. Ora abbiamo chiesto a 15 registi di raccontare il piccolo sole in storie differenti e questi film saranno esposti alla Tate Modern dal 13 settembre, così come sull’home page del nostro sito. Tutte le foto sono fatte da artisti, tutta la produzione di marketing è fatta non da esperti di marketing ma da artisti».
Alla fine, emerge un grande impegno per qualcosa che a prima vista appare una piccolezza.
«Questo è bello, considerando anche il mio stato attuale. Lo dico francamente: io ho un potere immenso. Sono in contatto con i top leader di moltissime industrie. Ho una rete di relazioni per cui posso telefonare al ceo delle venti maggiori industrie di un settore. Politici, ingegneri, spesso persone che non mi sono necessarie in un lavoro prettamente artistico. E quindi è giusto che io usi questa rete per dei propositi che vanno oltre una mostra o una vendita. È chiaro che sto in un gioco di cui non sono sempre il regista. Qualcuno mi usa e io uso qualcun altro. So che sto diventando o posso diventare uno di quelli che avrei voluto criticare. Occorre una grande concentrazione per sapere usare in modo sia etico che fattivo queste relazioni: per esempio, occorre saper chiedere ciò che vuoi a un amministratore delegato in non più di trenta secondi, che è il tempo che ti può dedicare».
Immagino che nel suo studio-accademia, questa scuola così diversa dalle normali zone di formazione in cui si pratica poco e forse si pensa troppo, queste cose verranno spesso a galla. È sempre stata parte della sua pratica non proporsi come l’artista solo e avaro di comunicazione.
«Già. E purtroppo posso testimoniare, avendo allievi di ogni nazione, che un giovane artista italiano vive in un ambiente culturalmente ostile al suo lavoro. Essere italiani è davvero una pessima condizione di partenza».
Lo sapevamo. Speriamo in un piccolo sole che ci illumini.