Virginio Rognoni, Corriere della Sera 03/09/2012, 3 settembre 2012
«IO E DALLA CHIESA SUL PALCO CONTRO LA MAFIA IN UNA PIAZZA VUOTA»
Sono passati 30 anni dall’orrendo delitto ma il ricordo del generale Carlo Alberto dalla Chiesa non è un rito, un gesto; è l’occasione per rinnovare l’impegno del Paese, ostinato, continuo, di combattere la criminalità mafiosa. Un impegno al quale la vita di dalla Chiesa è un richiamo costante. Gli scenari possono essere diversi, la società cambia e con essa cambia anche la mafia, ma la mafia continua ad essere un potere criminale che insidia il potere legittimo, inquina con estrema raffinatezza l’economia sana e il suo sviluppo, corrompe e compie misfatti. Dalla Chiesa va ricordato così, con questa consapevolezza. Per me, poi, il ricordo di quel giorno rinnova il dolore per la perdita di un uomo — divenuto via via un amico — che per due volte, come ministro dell’Interno, scelsi per compiti difficili che il Paese doveva affrontare.
Una prima volta quando proposi al governo di affidare al generale la punta più avanzata della lotta al terrorismo dei brigatisti, neri o rossi che fossero. L’incarico a dalla Chiesa ha significato la rimonta dello Stato dopo la sconfitta subita con il sequestro e l’assassinio di Aldo Moro. E l’opera di dalla Chiesa e del suo gruppo fu davvero straordinaria. La grande solidarietà e coesione nazionale che si manifestò in quegli anni è anche dovuta al generale.
Una seconda volta scelsi dalla Chiesa. Eravamo a qualche mese dalla liberazione del generale americano Dozier, ostaggio delle Br. La lotta al terrorismo aveva richiamato grande solidarietà nel Paese. Bisognava che questa solidarietà non andasse dispersa, piuttosto impiegata per richiamare tutti a un’altra grande «questione» «nazionale»: la lotta alla mafia. Con questa considerazione alle spalle, avanzai la proposta al governo di nominarlo prefetto a Palermo. Una scelta fondata sulla convinzione, da lui condivisa, che contro la mafia ci deve essere, in prima linea, la cittadinanza. Dalla Chiesa era convinto che gli uomini dello Stato dovessero sempre e comunque parlare di mafia, quasi un compito pedagogico. Tanto più in una società come quella siciliana storicamente incline a non farne parola, a tacere. Occorreva, insomma, rompere innanzitutto la vasta platea dell’omertà.
La sua nomina fu inquadrata nell’ordinamento tuttora vigente che conferisce al prefetto il coordinamento delle forze di polizia. Un compito reso ancora più pregnante con l’istituzione, prevista dalla legge dell’81 (riforma della Pubblica sicurezza) del Comitato per l’ordine e la sicurezza, a cui, oltre ai comandanti di polizia e carabinieri, possono essere chiamati, per iniziativa del prefetto, altri soggetti, non esclusi componenti della stessa autorità giudiziaria. Un tavolo come questo, nelle mani di dalla Chiesa, e a Palermo, si pensava che avrebbe dovuto avere una straordinaria funzione. Tanto più che si concordò che dalla Chiesa fosse il titolare dell’intelligence sulla criminalità mafiosa con referenti in alcuni prefetture di grandi città; una struttura agilissima al fine di accorpare tutte le notizie sugli insediamenti mafiosi nelle varie province e nelle varie regioni. Queste le cose chieste dal generale; un obiettivo ambizioso che si doveva raggiungere.
La riunione decisiva con i prefetti interessati doveva avvenire il 7 settembre, data che avevo concordato con il generale quando insieme si era andati, mi pare il 20 agosto, a Ficuzza per scoprire un cippo alla memoria di un ufficiale dei carabinieri, Giuseppe Russo, ucciso dalla mafia e del quale dalla Chiesa era comandante. Ma a quella riunione non si arrivò mai; quattro giorni prima accadde quel che accadde, terribile.
Si parlò e ancora si parla di solitudine di dalla Chiesa, addebitandola allo Stato che lo avrebbe lasciato solo. Non è così: il governo, il presidente del Consiglio, l’amministrazione dell’Interno, lo hanno sempre sostenuto. A Ficuzza andai proprio per rendere visibile di fronte a tutti questo indiscusso sostegno. E con dalla Chiesa e il sindaco del paese si parlò di mafia in quella piazza assolata e ambigua, con la gente che rimaneva sotto i portici, per poi, via via che si parlava, avvicinarsi al palco, quasi liberata da antiche paure. Dalla Chiesa ne era soddisfatto. Certo, nei giorni precedenti egli aveva espresso amarezza, aveva parlato appunto di solitudine; ma questa solitudine era avvertita rispetto ad uno scenario e a un clima diffuso di freddezza, indifferenza e sospetto che il generale vedeva in non pochi ambienti della politica locale. Ne sono convinto. Quando la partita contro la mafia la si vuole combattere sul serio è facile sentirsi isolati e soli in un ambiente non abituato a simili battaglie e addirittura impregnato di contiguità mafiose.
Trenta anni sono passati; ma la lezione di dalla Chiesa è viva e va continuamente riletta per ricavarne quei comportamenti virtuosi che il Paese oggi, come mai, richiede alle sue istituzioni e ai suoi cittadini.
Virginio Rognoni
ex ministro dell’Interno*