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 2012  settembre 02 Domenica calendario

ROMNEY, I NUMERI E LO STATO MINIMO

L’antico dilemma sull’utilità della spesa pubblica ai fini della crescita dell’economia riconquista il centro del dibattito politico sull’onda della convention repubblicana di Tampa, che ha rilanciato lo small government quale idea guida del candidato alla Casa Bianca, Mitt Romney. A riscaldare i toni giungono i dati sulla recessione che sta dilagando in Europa, anche in Paesi con governi affini al Grand Old Party come il Regno Unito e l’Ungheria, mentre gli Usa di Barack Obama segnano un incremento dell’1,7% che non si capisce quanto sia solido e quanto drogato dal deficit spending democratico.
Il dibattito sulla dimensione della spesa pubblica ha una profonda radice politica. Il suo esito dipende largamente dallo stile di vita e di lavoro che la società ritiene più le convenga. Ma esiste una relazione, accertabile con metodo scientifico, tra la quantità della spesa pubblica e la crescita dell’economia, e se sì qual è? All’inizio della crisi, il capo economista del Financial Times, Martin Wolf, cercò ma non trovò una relazione misurabile tra le due grandezze. Un nuovo negazionista è ora un economista della grande banca svizzera Ubs, Larry Hathaway, che ha messo in fila i dati Ocse dei 17 principali Paesi occidentali più il Giappone. Il focus sugli Usa serve a capire la questione politica. Nel 2010, gli Usa hanno il maggiore Pil pro capite a parità di potere d’acquisto dopo la Norvegia, piccola e benedetta dal petrolio (l’Italia è penultima). Gli Usa sono poi quart’ultimi nella classifica dell’incidenza della spesa pubblica sul Pil (l’Italia è sesta). L’incrocio di questi due dati dice che a poca spesa pubblica corrisponde molto Pil. Ma per Hathaway questo non basta a regalare una base scientifica alla linea Romney. La storia del periodo 1970-2010, abbastanza lungo da compensare le distorsioni congiunturali, spariglia l’equazione. Nel quarantennio, gli Usa sono solo decimi nella classifica della crescita del Pil pro capite a parità di potere d’acquisto, mezzo punto percentuale meno della media dei Paesi dell’Eurozona. La forte posizione attuale degli Usa è dunque figlia della ricchezza reale accumulata alla fine degli anni Sessanta. Si potrebbe sospettare che nell’andamento storico Usa pesi comunque un incremento della mano pubblica significativo, sia pure in termini relativi. Ma non è così. Negli anni Settanta, la spesa pubblica media era pari al 32,8% del Pil e nel primo decennio di questo secolo è stata pari al 37,3%. Negli stessi due decenni, il prelievo fiscale è salito soltanto dal 30,7% al 32,8% del Pil (diverso è il caso dell’Italia dove l’incidenza della spesa pubblica sul Pil è aumentata nel quarantennio dell’11,3% arrivando al 48% del Pil, mentre ancor più è aumentato il prelievo fiscale che era aumentato del 14,9% arrivando al 45% del Pil, per effetto anche degli interessi passivi sul debito pubblico).
Morale? Per Hathaway, non conta la quantità, ma la qualità della spesa pubblica: se questa serve ad aumentare la produttività, migliorando l’istruzione o le infrastrutture, o se è soltanto redistribuzione di reddito.
Massimo Mucchetti