Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2012  settembre 02 Domenica calendario

INDUSTRIA IN CRISI L’AUTUNNO CALDO DEL FRIGORIFERO

L’ ultima vertenza è scattata allo stabilimento Indesit di None, nel torinese: doveva chiudere il 12 luglio lasciando a casa 360 operai, dopo l’intervento di Regione, ministero e sindacati resterà aperto fino al 31 ottobre in attesa di capire, dopo le lavatrici ormai fabbricate in Polonia, quale sarà il destino delle lavastoviglie a incasso per il mercato europeo prodotte dalla multinazionale italiana. L’azienda dei Merloni mantiene sempre il suo presidio a Fabriano (mille addetti) ma esce da una lunga dieta fatta di chiusure (siti di Brembate e Refrontolo) e dolorosi percorsi di mobilità.

Pochi mesi prima gli svedesi di Electrolux, che in Italia impiegano 6mila addetti, avevano annunciato altri 900 esuberi con l’ennesimo piano di riorganizzazione (3mila posti di lavoro tagliati negli ultimi 5 anni) e la chiusura nel 2008 dello stabilimento di Firenze. I tagli si concentrano sul sito trevigiano di Susegana, che produce le ultime linee di frigoriferi da incasso salvate dalla delocalizzazione in Ungheria, su quello friulano di Porcia (lavatrici ed elettrodomestici per alberghi e ristoranti) e su quello di Forlì (piani cottura e forni).

Se si sale verso il lago di Varese la crisi dell’elettrodomestico prende il nome di Whirlpool. Qui la multinazionale americana che ha rilevato la mitica Ignis di Giovanni Borghi ha l’headquarter europeo, ma il crollo dei consumi impone cure da cavallo. Nei 5 stabilimenti italiani ballano mille addetti: 500 su 2.800 tra la base di Comerio e la vicina Cassinetta (piani cottura e frigo), 180 a Napoli (lavatrici), 120 a Siena (congelatori) e 70 a Trento (frigoriferi). Poi c’è Candy, che negli ultimi anni ha «perso» lo stabilimento Zerowatt di Nese (Bergamo), trasferito i piani cottura Gasfire da Erba alla Turchia e tagliato quasi 700 addetti (oggi sono mille). Se la Brianza «high tech» raccontata ieri è l’occupazione pregiata da preservare per uscire dalla crisi, i distretti del «bianco» sono il settore maturo del made in Italy da puntellare e rinnovare se il paese vuole evitare la disoccupazione di massa.

Per decenni l’Italia è stata la fabbrica d’Europa di lavatrici, forni, piani cottura, lavastoviglie, grazie all’intuizione di imprenditori geniali, simbolo del miracolo economico: Zanussi (oggi Electrolux), Borghi (oggi Whirlpool), Fumagalli (Candy), Merloni (Indesit Group). Finchè la globalizzazione, l’ingresso della Cina nel Wto e la moneta unica hanno scompaginato divisione del lavoro e produzione mondiale ad una velocità spietata.

«In termini produttivi siamo tornati indietro di 20 anni, con 15 milioni di pezzi prodotti contro i 30 di 10 anni fa», calcolano dalla Cgil. Il risultato è che «oggi l’industria degli elettrodomestici in Italia dà lavoro a 120mila addetti tra diretti e indotto. E’ ancora il secondo bacino occupazionale nel manifatturiero dopo l’automotive, ma nel 2003 erano 180mila». Una ritirata da bollettino di guerra.

«Il rischio vero è la desertificazione di quel tessuto di Pmi innovative, componentisti e fornitori anche dei colossi tedeschi, cresciute tra Veneto e Friuli, le Marche, il Varesotto, la Brianza e la Campania», spiegano in Confindustria. I big in qualche modo si salvano facendo economie di scala in giro per il mondo e delocalizzando in Polonia, dov’è attivo il più grande distretto europeo del bianco, Ungheria e Turchia. Ma i Piccoli? Solo nel fabrianese, la terra dei Merloni, negli ultimi 4 anni hanno chiuso il 40% delle microimprese dell’indotto, mentre il tasso di disoccupazione è schizzato al 16-17%. Cicatrici sul territorio di una crisi che ha tagliato i volumi produttivi del 40%; la domanda di lavatrici da 8,6 milioni di pezzi a 4,5, di lavastoviglie da 3 a 1,5 e di forni e piani cottura da 9,5 a 7,5. Nel frattempo, in 10 anni, il costo del lavoro è esploso da +20 a +50% sui concorrenti.

«Non siamo ingenui», riconosce Andrea Sasso, ad di Elica (leader mondiale nella produzione di cappe aspiranti) e presidente di Ceced Italia, l’associazione confindustriale dei produttori di apparecchi domestici e professionali. «Oggi ci sono i colossi cinesi, Midea e Haier, che fatturano 30 miliardi di dollari e coprono la fascia della grande distribuzione europea con prodotti di buon livello qualità/prezzo; è crollato del 35% il mercato occidentale medio-alto dove le nostre imprese sono tradizionalmente forti; e nei paesi emergenti, Far East in testa, soffriamo la concorrenza dei brand tedeschi e americani. Chiediamo però al governo di aprire un tavolo e discutere il futuro del settore».

La ricetta di Sasso va in tre direzioni: tagliare il cuneo fiscale per evitare la fuga completa delle produzioni verso l’est Europa. Defiscalizzare il costo del lavoro dei ricercatori che fanno innovazione nei laboratori italiani. E aumentare i controlli alle dogane sull’import cinese: spesso alla concorrenza trasparente si aggiunge quella sleale. «Soprattutto ci dicano se il bianco è nelle priorità del paese oppure viene considerato un settore dadismettere».

Alcune produzioni in realtà si possono mantenere in Italia, ma va fatta una cernita onesta e messo qualche soldo pubblico: i 14 milioni di pezzi che usciranno dalle nostre fabbriche nel 2012 rappresentano l’alto di gamma per valore aggiunto, marchio e design come gli elettrodomestici da incasso, cappe e camini a buona tecnologia. Il punto è che su altre produzioni di fascia media in dismissione, perché non esiste la domanda né fattori di costo competitivi, ci sarà una forte riduzione della base occupazionale che andrà governata. Già oggi 50mila addetti (quasi il 40% del totale) sono in cassa integrazione; quando scadrà saranno di fatto a spasso. «Quel che non è accettabile – conclude Sasso - è questo limbo in cui si rischia comunque di perdere aziende che cesseranno l’attività o andranno all’estero, e insieme l’occupazione pregiata degli ingegneri. Continuando a tagliare sulla produzione, infatti, prima o poi anche ricerca e sviluppo seguiranno…».