Leonetta Bentivoglio, la Repubblica 2/9/2012, 2 settembre 2012
L’INCONTRO ANTIDIVI DANIELE GATTI
SALISBURGO
Se è vero che la grande musica è il luogo dell’ascolto e dell’attesa, il direttore d’orchestra Daniele Gatti riflette in pieno questa concezione, perché si è preso sempre la briga di aspettare. Di approfondire, scavare, metabolizzare. Di non bruciarsi con le false verità della fretta. Di raggiungere le sue conquiste con passo lento e saggio. Antidivo per eccellenza, Gatti svetta nella marmellata del consumismo musicale odierno come un campione di serietà e puntiglio. Non c’è un filo di star system che lo riguardi, neppure da lontano. Grazie a un tenace e costante allenamento, si è delineato come il “classico” Maestro di sostanza, di quelli che sanno sostenere il peso della maiuscola. Gesto esatto, presenza carismatica sul podio, fisico da lottatore indossato con leggerezza. Compie letture nitide, sospinte da un pensiero solidamente strutturato. Continua a dimostrarlo in questo suo presente fitto di successi, come la Bohème appena diretta al festival di Salisburgo, dov’è avvenuto questo nostro incontro. Il suo Puccini vivido e moderno, aperto alle identificazioni e mondato dal sentimentalismo, ha ottenuto un trionfo. Nutrito, al solito, da quel suo dono peculiare di rigore, esercitato così tanto da averlo fatto tacciare di moralismo, eppure in grado di premiarlo con risultati eccezionali.
Nato a Milano cinquantun anni fa, oggi Daniele Gatti conta su un prestigio mondiale indiscusso, spiccando come il direttore italiano più affermato della sua generazione. E quando valuta il panorama attuale, dominato da effimeri baby-direttori, non ha peli
sulla lingua: «Se vuoi arrivare in vetta a una montagna, devi partire dal fondovalle. Solo così trovi rifugi e tappe che ti faranno progredire con naturalezza. L’aria, salendo, si farà molto più rarefatta, ma intanto il tuo corpo si sarà adattato. Se invece prendi l’elicottero per conquistare la cima in un attimo, rischi di distruggerti: a cinquemila metri non respiri». Disegna questa metafora per affermare, con un vigore che rasenta la durezza, che «ogni direttore d’orchestra, quand’è giovane, dovrebbe lavorare con gradualità, facendosi le ossa in provincia e senza avventurarsi subito nel repertorio più complesso. La sedimentazione è d’obbligo nel nostro mestiere».
Così ha fatto Daniele, a suo tempo: «Dai diciotto ai venticinque anni ho diretto gratis, solo per coltivare la mia esperienza in situazioni molto marginali, di battaglia. Ero ventottenne quando presi la conduzione stabile dell’orchestra dei Pomeriggi Musicali di Milano. Nell’88 ho debuttato alla Scala con
L’occasione fa il ladrodi
Rossini, ma ho accettato di farlo perché era un titolo “minore”, adeguato alle mie forze di allora. In quell’occasione la Scala mi propose di dirigere
Luisa Millerdue
anni dopo, ma io rifiutai quest’impegnativo titolo verdiano per il quale non mi sentivo pronto, così come non volli dirigere il
Rigoletto
che mi era stato offerto dal Maggio Fiorentino. Poi giunse la nomina all’Accademia romana di Santa Cecilia, di cui sono stato direttore musicale dal ’92 al ’97, e si aprì un bel rapporto con il Teatro Comunale di Bologna, dove ho lavorato come direttore musicale dal ’97 al 2007».
Roma e Bologna sono state due formidabili palestre per Gatti. Nel frattempo gli si spalancava il mondo, con conduzioni stabili a Londra (ha guidato per tredici anni la Royal Philharmonic, ed è stato direttore ospite principale della Royal Opera House) e a Zurigo (ha avuto il titolo di direttore principale della Opernhaus dal 2009 al 2012). Spesso, inoltre, è stato accolto sul podio di formazioni mitiche come i Wiener Philharmoniker, coi quali ha stabilito una collaborazione di estrema intensità, e con cui sarà in tournée in Italia in ottobre: «È una magnifica compagine, che fin dai tempi di Toscanini ha lavorato con maestri italiani in modo continuativo e privilegiato. Io sono l’ultimo tra loro in ordine cronologico, il che mi rende fiero».
Intanto si sono moltiplicate le sue partecipazioni ai festival più “sacri” della musica in Europa, come quello wagneriano di Bayreuth (
Parsifal
nel 2008, spettacolo ripreso per i tre anni successivi) e come Salisburgo, dove ha diretto un’impressionante
Elektra
nel 2010. La
Bohème
di quest’anno, interpretata come una dolorosa linea d’ombra stesa sul crinale del passaggio dall’adolescenza all’età adulta, lo ha riconfermato come un beniamino della scena salisburghese: «Con il regista Damiano Michieletto, abbiamo segnalato l’aspetto più realistico e anche cinico di
Bohème,
che ritrae un mondo di giovani artisti inconsapevoli e immaturi. Rodolfo è un ragazzo fragile e incapace di vivere responsabilmente il suo amore per Mimì. Sarà la morte di lei a costringerlo a crescere».
Il 5 settembre Daniele Gatti inaugurerà “MiTo SettembreMusica”, il denso festival musicale che, lungo tre settimane, si svolgerà tra Milano e Torino. In quest’ultima città, e poi il 6 alla Scala,
Gatti proporrà un programma quasi interamente votato a Debussy, al quale ha appena dedicato un applaudito disco edito dalla Sony. Sarà alla testa dell’Orchestre National de France, l’ultimo tra i suoi approdi di conduzione stabile, con cui ha firmato un impegno nel 2008. Affascina sentirlo parlare del compositore che dominerà le due serate, e di cui si celebra quest’anno il centocinquantesimo anniversario della nascita: «In Debussy è catturante la vastità e bellezza della miscela di colori. Col timbro e l’impasto degli strumenti, si possono ottenere colori che sono fondamentali per lo sviluppo espressivo del brano. Il suo è un linguaggio che usa l’orchestra con fantasia suprema, e con una sapienza di strumentazione che alimenta l’espressività compositiva».
Difficile portare Daniele Gatti fuori dal tracciato musicale. Ogni domanda sul privato lo disturba. Si sa che ha un matrimonio alle spalle, e che da quattro anni ha una compagna francese. Si sa che vive tra Milano, dove possiede un appartamento, e Parigi, dove ha una casa in affitto. Si sa che studia sempre tanto, persino quando si suppone che non lo faccia, «perché si può studiare anche guidando in autostrada, e non solo con la partitura davanti. A volte, mentre sto al volante, ripenso alla scelta di un tempo o a un fraseggio. C’è un inarrestabile lavoro di limatura e approfondimento che può attraversarci nei momenti più impensati».
Ma sulla sua famiglia d’origine, per fortuna, è lecito farsi raccontare qualcosa: «Mio padre aveva studiato canto con Aureliano Pertile, poi si mise a lavorare in banca e lasciò la musica. Mia mamma ha sempre amato la musica classica e suonava il pianoforte a orecchio. Io, da piccolo, ero bravo a cantare e a riprodurre con immediatezza ogni melodia con strumenti giocattolo. Avevo senso del ritmo e orecchio, ascoltavo una canzone alla radio e la imitavo. Così fino ai dieci anni. Entrai in conservatorio in prima media, e a tredici anni compresi che il mio destino era la direzione d’orchestra». Come lo capì? «La rivelazione avvenne alla Scala, quando assistetti dal loggione alla
Cenerentola
di Rossini diretta da Claudio Abbado. Rimasi folgorato dal suono dell’orchestra e dalla comunicazione tra i diversi strumenti. E poi l’evento, l’attesa, l’accordatura, gli applausi al maestro... Ancora oggi sono
molto preso dal rito. Decisi che nella vita non avrei voluto fare altro».
Rammenta perfettamente il suo debutto, «il 3 maggio del 1980, a Milano, in un teatro parrocchiale, con un complesso di archi di amici. Vennero a suonare come rinforzi quattro professori della Scala che erano alcuni papà dei ragazzi coinvolti. Mi sono subito sentito bene lì sul campo, con la precisa percezione che era quello il mio posto». Riferisce che nella Milano del terrorismo, delle Brigate Rosse e dei picchettaggi, trascorreva i suoi giorni rinchiuso in conservatorio, «con docenti ottimi e severissimi, di manica terribilmente stretta riguardo ai voti. In più l’Orchestra della Rai provava in conservatorio, perciò eravamo in contatto quotidiano con i suoi musicisti, compiendo un’immersione preziosa nel mondo del professionismo musicale». All’epoca, per lui e per gli altri studenti, la Scala rappresentava tutto: un sogno, un riferimento di culto, il punto d’arrivo. «Presentava spettacoli leggendari e il meglio dei cantanti e dei direttori. Ho seguito con enorme ammirazione sia gli anni di Abbado che quelli di Muti, imparando molto da entrambi». Sul podio della tanto fantasticata Scala, che nel 2008 gli affidò
Don Carlo
per l’apertura della stagione teatrale, Gatti dirigerà
La Traviatanel
2013, ancora una volta nella fastosa serata inaugurale di Sant’Ambrogio. Ora che ha la maturità del cinquantenne, dice, può consentirsi di fronteggiare bene Verdi e Wagner, «però tenendo sempre a mente la frase di Giulini: noi esecutori siamo solo in transito; gli immortali sono loro, i compositori. Tanti interpreti pompati dai teatri, in un mercato che si è fatto sempre più pressante e irresponsabile, dovrebbero sforzarsi di ricordarselo».