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 2012  settembre 02 Domenica calendario

TANTI SALUTI AL PC

Il postino delle Botteghe Oscure ha novant’anni. Si chiama Paolo Magrini e vive a Palestrina, a pochi chilometri dal suo paese natio, Pisoniano, nell’agro romano. Lì, da ragazzo esordì come bracciante. Ma ormai si considera un collezionista e uno scrittore. È, infatti, proprietario d’un archivio fittissimo di cartoline illustrate che, imbucate soprattutto all’estero, portano talvolta, in calce, firme di prestigio. Più spesso, però, sono indirizzate da ignoti attivisti di partito a personaggi storici del Pci ai suoi tempi d’oro. Tempi che, per Magrini, si estendono dal 1972 al 1984, segreteria Berlinguer, quando gli vennero affidate le funzioni di responsabile dell’ufficio posta, installato al piano terreno del “Bottegone”.
Un’esperienza delicatissima. Magrini ne va fiero. Ogni esemplare di posta da lui conservato gli riporta alla memoria episodi umili o illustri di un ieri che insiste nel considerare più
attuale che mai.
Cartoline a Botteghe Oscure
s’intitola il libro che ha stampato a proprie spese. Uscito in maggio, è stato presentato al ristorante Baficchio in pieno agro romano, fra grandi evviva. A sfogliarlo, ci si sente davvero trasferiti «nel cuore del Pci» come suggerisce il sottotitolo. Per il suo stile, sembra doveroso consigliarne la lettura a tanti studiosi della narrativa “neorealista”: non è facile, in quella specialità, incontrare racconti ugualmente espressivi. E di pari diletto.
Il contenuto delle cartoline postali è scarno. «Saluti comunisti », auguri provenienti da “iscritti” mandati a partecipare a uno dei raduni che punteggiano l’attività del “socialismo reale”, dall’Europa dell’est a Cuba, all’estremo Oriente. È Mosca la provenienza sacramentale di gran parte dei messaggi. E ad essa si riferiscono le chiose e i commenti, segnati in margine ai testi dal postino del Bottegone, che sembra volersi scusare per la propria intrusione fra temi ed eventi di rilievo (proprio io, «un bracciante quasi analfabeta…») ma non rinunzia al diritto di dire la sua, quasi rivolgendosi a un gruppo di compaesani.
Mosca, dunque. Una cartolina raffigura la Piazza Rossa, dalla quale il compagno Giovanni Aglietto manda i suoi saluti. «Piazza Rossa e il Cremlino», ci scrive accanto il postino. «Quanti piedi e piedini hanno camminato su questa storica piazza. Simboli ovunque! Tutto è uno sventolio di colori: Ma dentro ogni caseggiato sta la speranza». E qui un’osservazione un po’ desolata, che — lo vedremo — è un segno distintivo di questo comunista “d’antan”: «Oggi il socialismo è solo il ricordo d’un sogno che uomini non accorti hanno fatto appassire », Un’altra cartolina da Mosca fotografa la monumentale torre Ostankino, suggerendo a Magrini intimi ricordi. «È la costruzione più alta d’Europa. Il ristorante girevole, “Settimo cielo”, consente di ammirare, durate il pranzo, il panorama completo di Mosca. Io e la mia compagna Agnese abbiamo goduto di questo privilegio». Il giardino di Alexander, anch’esso effigiato in cartolina, gli suggerisce pensieri da idillio. Egli rie-
voca «i raggi di sole che perforano la fitta vegetazione» e «il silenzio, quasi fastidioso per il nostro carattere di latini. Le voci più ascoltate nel parco sono le melodie di numerosi uccelli. Le panchine sono tutte occupate da una moltitudine umana in silenziosa lettura».
Un paese di Bengodi? ci si chiede. Chiose meno zuccherose gli suggerisce un’altra cartolina “moscovita”. Raffigura Vladimir Ilic seduto su un parapetto, con intorno sontuose dimore ufficiali. «Lenin», chiosa il collezionista, «guarda pensoso il Cremlino», quasi «intuendo la scarsa democraticità del nuovo Stato», egli osserva «come si muovono gli inquilini » di quei palazzi ufficiali. Ed ecco, d’un colpo, spuntare Stalin. Il creatore dell’Urss «non potrà far retrocedere l’uomo di ferro dal cammino intrapreso. Questa è la storia, queste le sue drammatiche sorprese!».
Un po’ di Russia vive e opera anche, in trasferta, a Roma. La rappresenta, agli occhi dell’autore, tale Leonida Popov, che nell’ambasciata sovietica cura i rapporti con il Pci. Popop «era sempre in mezzo ai piedi, per avere notizie su cosa pensasse la base interna all’apparato, cioè noi». Una specie di spione in trasferta permanente? Era, questo sì, «sempre distinto nel vestire tanto da sembrare un perfetto italiano».
La Russia, si sa, è un bersaglio robusto, può tollerare qualche livido. Ma la Cina? Ecco che la compagna Nina Ravelli, in gita a Pechino, manda una cartolina al segretario Achille Occhetto, per domandargli: « Se i cinesi sono mezzo miliardo e forse più, come farà il governo a sfamarli, tenendo conto che con il socialismo qualche mezzo etto di riso al giorno lo rivendicheranno? Immaginate quanti quintali di riso dovranno produrre». La chiusa è confidenziale e affettuosa: «Povero Mao!».
Le cartoline partono quasi tutte dall’estero, ma fermiamoci per un po’ a Roma, al Bottegone. Agli occhi del suo dirigente, l’ufficio posta è l’alfa e l’omega degli umori comunisti. A turno, questo o quello tra i più alti dirigenti diventa il maggiore destinatario di lettere e cartoline. Berlinguer
quando rilascia quell’intervista in cui dichiara di fidarsi più della Nato che del Patto di Varsavia. Amendola quando propone l’unificazione fra Pci e Psi. Cossutta allorché diventa il simbolo di coloro che, nel partito, non condividono lo strappo da Mosca.
Da me interrogato su quale dei leader comunisti gli sia stato più simpatico, Magrini indica, oltre al previsto Berlinguer, Giorgio Amendola. In una pagina del libro, infatti, lo descrive come un ghiottone condannato alla dieta. Sta addentando una rosetta traboccante di mortadella. Gli «piace da morire ». Mentre gliela porge di soppiatto, il funzionario-postino, non ignora che la trasgressione, se scoperta da Germaine, la moglie del leader falso-magro, produrrebbe un litigio drammatico. È un pericolo grave quasi quanto la supposta presenza di lettere esplosive che richiamavano l’attenzione dell’ufficio posta, e che qui ottengono molto rilievo.
Fra i capi storici che presiedono al funzionamento dell’intero apparato, un posto adeguato il libro lo assegna a Giancarlo Pajetta cui l’autore attribuisce un carattere burberobenefico, capace di sfuriate seguite dalle scuse tipiche di chi è in torto (e lui, s’intuisce, spesso lo è). In un angolo di un’altra pagina trovo il ritratto di un innominato: poi, con l’aiuto dell’autore ho scoperto che è Walter Veltroni, colto nella sua infanzia di partito.
Nel palazzo rossastro del Pci non mancano momenti di vero svago, tra la festa marzolina della donna (nel corso della quale viene consegnato a Enrico Berlinguer «un ramoscello di mimosa da portare alla sua compagna Letizia») e il Natale, allietato da «materiale mangereccio».
Queste scene di vita vissuta fanno da corona alla raccolta di cartoline più o meno d’epoca. D’epoca — si sarà capito — è l’opera intera. Alla quale non fa difetto la nostalgia. Ma la vera sorpresa, in questa massa di posta e di pensieri, è un profumo, “proletario” e insieme casereccio, che emana. Il lettore se ne lascia avvolgere.