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 2012  settembre 02 Domenica calendario

HERMANN HESSE IO, SIDDHARTHA

Il piccolo romanzo — che Hermann Hesse iniziò a scrivere nell’inverno del 1919 — nasceva anche come reazione alla guerra e alle sue devastazioni. Da tempo nella sua mente si era affacciata l’idea che l’Europa fosse una civiltà al tramonto. Qualche anno prima lo scrittore aveva compiuto un viaggio in India che ebbe il sapore dell’iniziazione e dell’allontanamento dall’Europa: «Io la fuggivo e quasi la odiavo, l’Europa, con il suo gusto pacchiano, con il suo frastuono da fiera di paese, con la sua inquietudine senza respiro, con la sua rozza e stolida smania di godere», scrisse in un saggio che ora vede la luce — insieme a una piccola raccolta di lettere, a brani di diario e ad altri contributi — in appendice a una nuova edizione di
in uscita il 5 settembre da Adelphi (nella bella traduzione di Massimo Mila).
Completare il libro non fu semplice. Una severissima crisi ne aveva inaridito la vena narrativa. La moglie malata di mente e chiusa in un manicomio, la povertà sempre più insidiosa, la separazione dai figli contribuirono ad accrescere la precarietà dello scrittore. Ci vollero più di due anni perché Hesse portasse a compimento la sua “leggenda indiana”. E quando, nel 1922, il romanzo uscì, l’accoglienza non fu esaltante. Comunicò a Romain Rolland la delusione
per gli amici più stretti che tacevano e aggiunse che dalla critica sui giornali non aveva udito «altro finora se non espressioni di rispettoso imbarazzo ». Si può capire la reazione sfavorevole a un libro insolito che, con gli occhi di un europeo, raccontava l’India attraverso l’India.
Da tempo abbiamo appreso che esistono libri nati per segnare la stagione di una vita. Che irrorano con le proprie semplici trame l’immaginazione di un’età non ancora adulta né formata. Le loro pagine si vivono con tanta più intensità quanto più è forte il disagio di chi si aggrappa ad esse come a un oggetto di culto e di salvezza.
Siddhartha
avrebbe egregiamente svolto il compito di traghettare anime
incerte in mondi avvolti nel sogno orientale. Col tempo, infatti, quel racconto — dai toni a volte favolistici e lievemente ammonitori — avrebbe guadagnato alla propria causa letteraria decine di milioni di lettori. Dov’era il suo fascino?
Hesse scrisse una storia senza pretese speculative. Chiunque avesse letto della vita di Siddhartha avrebbe colto la determinazione con cui il giovane figlio di un bramino cercava la propria strada senza compromessi. L’inquieto Siddhartha desiderava un’iniziazione alla vita e alla verità. In principio voleva diventare un
samana,
un asceta le cui pratiche mistiche lo avrebbero aiutato a spersonalizzare il proprio essere, a creare quel vuoto interiore, condizione necessaria per assumere ogni nuova forma che il mondo gli offriva: quella di un airone o di uno sciacallo, della pietra o del legno, della fame o della sete. «Molto apprese Siddhartha dai
samana,
molte vie imparò a percorrere per uscire dal proprio Io», scrive Hesse. Ma al giovane, dotato di grande intelligenza
e sensibilità, non bastava l’insegnamento delle arti dei
samana.
A quel tempo un’altra figura si aggirava e faceva proseliti: era quella del Buddha. E quando Siddhartha lo incontrò lo riconobbe subito: «Lo vide, un ometto semplice, in cotta gialla, che camminava tranquillo con la sua ciotola in mano per le elemosine». Siddhartha — diversamente dall’amico Govinda — non volle tuttavia convertirsi alle idee del nuovo maestro. E per quanto ne ammirasse la calma e la forza, e ne apprezzasse la dottrina compassionevole, qualcosa gli impediva di abbracciarne la fede. Non che le parole del Buddha suonassero false. Anzi. Ma egli misteriosamente sapeva di dover continuare il viaggio, «non per cercare un’altra e migliore dottrina, perché non ve ne è alcuna, ma per abbandonare tutte le dottrine e tutti i maestri e raggiungere da solo la mia meta o morire», disse Siddhartha.
La verità, spiega Hesse, non è il frutto di una dottrina che un maestro trasmette
all’allievo, non è un sapere codificato
e appreso. Ma una predisposizione dell’animo, uno sguardo libero e smarrito rivolto al proprio interno. È ciò che Siddhartha, anche in questo diversamente da Govinda, intuisce. Egli sa che il viaggio è più importante della meta e che perdersi, o deviare dalla retta strada, è altrettanto necessario del ritrovarsi. L’incontro con Kamala, la prostituta di cui si innamora, e il successo che gli arride negli affari trascinano, apparentemente, Siddhartha in un gorgo di brutali sensazioni. In realtà, anche il più ignobile dei comportamenti fa parte di un disegno misterioso: «Aveva dovuto scendere nel mondo, perdersi nel piacere e nel potere, nelle donne e nell’oro, aveva dovuto diventare un mercante, un giocatore di dadi, un beone e un avaro, finché il sacerdote e il
samanain
lui fossero morti».
Hesse ci mostra le tappe di un risveglio
e la via per raggiungere la sag-
gezza. Che non è comunicabile, né trasmissibile. Ad essa si approda nell’alternanza del dolore e del piacere, della caduta e della rinascita, del samsara e del nirvana, dell’illusione e della verità: «Di ogni verità anche il contrario è vero», sentenzia Siddhartha. E la verità non è il frutto di una dottrina, per quanto nobile possa essere, come quella insegnata dal Buddha. La verità — che gli indica con il proprio
esempio il barcaiolo Vasudeva — era l’accordo della propria voce con la voce del fiume. Con l’acqua che lo compone. E questa non è un principio, non è un concetto ma una pura superficie sulla quale si riflette la mente di Siddhartha. La verità che egli cerca non è il
logos
occidentale: è la fluida pienezza della mente che il fiume ha riempito.
Fu il messaggio che oscuramente milioni di lettori carpirono al libro. Dopo il Nobel, vinto nel 1946, e i riconoscimenti di Thomas Mann, Stefan Zweig, Hugo Ball (bilanciati dalle sferzanti critiche di Gottfried Benn), Hesse divenne suo malgrado un guru, una fonte di illuminazione spirituale, il testimone di una saggezza vissuta con sincerità. Fu così che
Siddhartha
finì nello zaino di quei ragazzi che negli anni Sessanta intrapresero il loro viaggio di conoscenza a Oriente. Una moda che dilagò dall’America all’Europa: complici la musica, le droghe, e una vaga adesione al misticismo. Carovane di giovani partirono alla scoperta
dell’India con la benedizione dei poeti della Beat Generation e di qualche gradevole canzone. Le parole che
Siddharthaaveva
loro insegnato — come cura contro le nevrosi, l’alienazione, l’aggressività — non c’erano negli altri libri. Quel sincero entusiasmo raramente fu sfiorato dal dubbio che una civiltà per quanto la si possa amare è pur sempre distante, difficile da penetrare e refrattaria ai facili entusiasmi. Sorprendentemente l’eretico Siddhartha divenne la più addolcita realizzazione del “superuomo” nicciano: con lui rivivevano la morte e la rinascita di tutti i valori. Credo che qui risieda il più suggestivo segreto del successo: insegnare la trasgressione e la sottomissione. Far convivere la devianza e la norma. Accettare la vita cambiandone il senso. A ben guardare,
Siddhartha
fu il primo di una infinita serie di libri “pedagogici” destinati a prendersi cura delle nostre anime. Anche se l’India, signora mia, oggi non è più quella di
una volta.

HERMANN HESSE –
Non soltanto in saggi occasionali ho detto apertamente come la penso in fatto di religione, ma una volta, poco più di dieci anni or sono, ho anche cercato di esporre il mio credo in un libro. Il libro si intitola
e il suo contenuto di fede è stato di frequente esaminato e discusso da studenti indiani e sacerdoti giapponesi, ma non dai loro omologhi cristiani. Che in questo libro il mio credo abbia un nome indiano e un volto indiano, non è puro caso. Io ho vissuto la religione in due forme: da figlio e nipote di protestanti pii e rigorosi, così come da lettore di testi sacri indiani, tra i quali metto al primo posto le
la
i
di Buddha. E neppure questo fu un caso: che io, cresciuto nell’alveo di un cristianesimo autentico e vivo, abbia avvertito sotto fattezze indiane i primi slanci di
Mio padre — così come mia madre e il padre di lei — aveva speso l’intera vita al servizio della missione cristiana in India, e benché la consapevolezza che non esiste una gerarchia delle religioni si fosse poi manifestata solo in uno dei miei cugini e in me, già mio padre, mia madre e mio nonno non possedevano soltanto una conoscenza vasta e piuttosto approfondita della religiosità indiana in tutte le sue forme, ma verso tali forme nutrivano anche una simpatia non del tutto confessata. Per contro ho conosciuto il cristianesimo in una forma che incise, univoca e rigida, sulla mia vita: una forma debole ed effimera, che oggi è ormai superata dai tempi e quasi scomparsa. L’ho conosciuto come protestantesimo di stampo pietista, e l’esperienza è stata forte e profonda; perché la vita dei miei avi e dei miei genitori fu interamente improntata al regno di Dio, ed è trascorsa al suo servizio. Che gli uomini considerino la vita come un bene concesso loro da Dio a mo’ di beneficio e si propongano di viverla non sotto la spinta dell’impulso egoistico, ma piuttosto come servizio e sacrificio al cospetto di Dio: questa importante esperienza ereditata dall’infanzia ha profondamente influenzato la mia vita. Non ho mai preso del tutto sul serio il “mondo” e gli uomini di mondo, e con il passar degli anni lo faccio sempre meno. Ma per quanto grande e nobile fosse quel cristianesimo, praticato dai miei genitori come vita vissuta, come servizio e sacrificio, come comunità e missione, le forme confessionali e in parte
settarie, in cui noi bambini lo conoscemmo, mi risultarono già molto presto sospette e in parte davvero intollerabili. [...] A confronto con quel cristianesimo così angusto, con i suoi versi un po’ dolciastri, con i suoi pastori e i suoi sermoni in genere così tediosi, il mondo della religione e della poesia indiana era certo molto più allettante. Lì nulla mi incalzava da presso, lì non dominava il sentore di quei modesti pulpiti pitturati di grigio né delle pietistiche scuole domenicali: la mia fantasia poteva spaziare, io potevo accogliere in me senza resistenze i primi messaggi che mi giungevano dal mondo indiano e i cui effetti sarebbero durati per tutta la vita. [...] In anni lontani questi pensieri mi inducevano a guardare con una certa invidia e reverenza alla Chiesa cattolico-romana, e il mio anelito di protestante verso la forma consolidata, la tradizione, l’epifania dello spirito mi aiuta ancor oggi a mantenere desta la mia venerazione per questa suprema entità culturale dell’Occidente. Eppure, anche questa mirabile Chiesa cattolica mi appare degna di venerazione solo a una certa distanza: non appena mi avvicino, anch’essa, come qualsiasi creazione dell’uomo, emana un intenso odore di sangue e violenza, di politica e bassezza. E nondimeno mi capita di tanto in tanto d’invidiare al cattolico la possibilità di recitarle davanti a un altare, le sue preghiere, anziché nel chiuso di una stanzetta spesso troppo angusta, e di filtrarla attraverso la grata di un confessionale, la confessione dei suoi peccati, anziché esporli sempre e soltanto all’ironia di un’autocritica solitaria.