Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2012  settembre 02 Domenica calendario

«IL LIBRO DI VELTRONI, UN SOGNO PER PADRI E FIGLI»

Per quelli della mia generazione, il romanzo L’isola e le rose ha il sapore della nostalgia e ci riporta in un tempo cruciale della nostra vita personale e della nostra storia collettiva. Tutta la vicenda si svolge tra la fine del 1967 e l’ottobre del 1968, un anno indimenticabile. Viene persino da pensare: «ma dov’ero io in quei mesi fatali, dall’agosto all’ottobre, in cui si decide il destino dell’isola?». Si ha come la sensazione che quell’incredibile storia vera abbia sfiorato la nostra esistenza, che fu segnata dagli stessi eventi, dalle stesse speranze e dagli stessi miti che fanno da sfondo alla storia dei ragazzi di Rimini protagonisti del romanzo.
Il mio ’68 militante, in quei mesi, mi spingeva a Praga, in piazza, con il groppo alla gola, contro i carri armati sovietici.
E, più tardi, a Francoforte, a rappresentare con Giulietto Chiesa e Giorgio Manacorda la Fgci nell’università assediata dalle forze dell’ordine, dove si svolse il drammatico congresso che - dopo l’attentato a Rudi Dutschke - decise lo scioglimento della Sds, la - per noi leggendaria - lega degli studenti tedeschi di sinistra.
Il ’68 che Walter Veltroni ci racconta, con molto garbo e affettuosa partecipazione, non è quello dei grandi eventi della militanza politica; i riflettori si accendono sulla provincia italiana, sia pure su quella provincia straordinaria che è Rimini e la Riviera romagnola, dove l’ottimismo e la gioia di vivere sono di casa, mescolati con una vena di follia che rende fertile il terreno per i sogni, le utopie e le imprese incredibili. È in questo clima che matura il progetto di un gruppo di ragazzi, fra ansia di libertà ed estro per gli affari, che, l’uno e l’altro, certamente non fanno difetto da quelle parti. La costruzione dell’isola (una piattaforma al largo di Rimini) diventa via via non soltanto la loro avventura, ma un evento che coinvolge e anima un’intera comunità. Ed anche se al centro c’è il racconto delle storie di questi ragazzi, narrato con freschezza, con le loro speranze, amori e ingenuità, ciò che colpisce è, più in generale, l’affresco della società italiana di quegli anni. Un Paese che, uscito dalla tragedia della guerra, si era via via modernizzato ed aperto al mondo e cresceva impetuosamente, sospinto dalla fiducia nelle sue forze e percorso da energie vitali. L’isola diventa, allora, la metafora di una società in piena trasformazione, il simbolo di una generazione nuova che guarda al futuro e al mondo.
L’America irrompeva nella nostra civiltà con la sua musica, con il cinema e la televisione, perché, al di là dell’ingenua utopia dei ragazzi di Insulo de la Rozoj, non era nel segno dell’esperanto che il mondo andava allora unificandosi. E, nel racconto di Veltroni, la modernità che arriva d’oltreoceano si incontra con la creatività del nostro cinema, e col maestro Fellini innanzitutto, e con i miti della politica un po’ confusi, da John Kennedy a Che Guevara, ma tutti nel segno del cambiamento. Non manca neppure - con una punta simpatica di autoironia - il riferimento alle figurine Panini.
È straordinario come Walter sappia raccontare la vita di una generazione alla quale egli si è iscritto certamente giovanissimo, avendo avuto nel ’68 non più di tredici anni. Ma, forse, nel romanzo, più che la nostalgia di quel tempo - che esprime probabilmente il sentimento del lettore -, traspare un amore profondo verso il nostro Paese ed una fiducia nelle sue potenzialità. Certo, la storia dell’isola si presta anche bene a mettere in luce i vizi incancellabili del nostro carattere. Non è un caso che l’isola delle rose venga costruita oltre il limite delle acque territoriali, quasi a sottolineare quella diffidenza verso lo Stato, i suoi regolamenti e le sue leggi, gli obblighi che esso impone, a cominciare da quelli fiscali, cui gli italiani, oggi come nel ’68, appaiono recalcitranti. Ma questa diffidenza è un sentimento ricambiato da una politica lontana e lenta nel capire e da una burocrazia ottusa e conservatrice, orientata piuttosto al controllo e alla repressione, malgrado l’intelligenza e l’umanità di qualche funzionario (ringrazio Walter per la figura di Tortolì, «la spia buona», che riscatta una categoria al centro di molti - forse troppi - sospetti). Ma si sa che la forza della nostra società non sta tanto nel sentirsi comunità e nazione, quanto nelle reti di solidarietà, di amicizia, nei legami familiari, nel dialogo, anche se a volte difficile, tra le generazioni.
Nel romanzo di Veltroni, tornando indietro alla maniera del flashback cinematografico, entrano in scena tre generazioni: i nostri padri, che hanno vissuto la dittatura, la guerra e la ricostruzione, noi e i nostri figli. E nel dialogo tra padri e figli ci sono forse i passaggi più profondi ed anche più problematici del racconto. La generazione della guerra e, poi, del miracolo italiano, portava con sé una carica di speranza e di fiducia e la trasmise ai figli, incoraggiandoli a costruire «le loro Piramidi». Più aspro e difficile si delinea il rapporto tra chi ha vissuto le illusioni del ’68 e i giovani di oggi, che sembrano aggirarsi tra le macerie di una crisi che ha colpito sicurezze e conquiste sociali e che non sembra offrire speranze per il futuro. «Ci avete tolto tutto: dall’illusione della ricchezza facile alla fiducia di una società migliore, più giusta», è il grido dei ragazzi di oggi contro una generazione - la nostra - che spesso appare prigioniera del proprio narcisismo e incapace di riaprire una prospettiva per i più giovani.
Mentre scrivo, le agenzie annunciano un livello di disoccupazione tra i ragazzi mai raggiunto negli ultimi vent’anni e il peso di questa realtà drammatica offre più di una ragione alla protesta di chi vede svilite le proprie aspettative di vita e si sente escluso. Ma è anche vero che dal buio della crisi non si esce senza tornare a immaginare il cambiamento e senza tornare alla forza di un sogno. «Siamo caduti e risaliti. Ma siamo vivi. È l’augurio che faccio a voi. Abbiate l’ambizione di fare qualcosa di grande»: questo è il messaggio di speranza che Walter propone a conclusione del dialogo. Ed il romanzo si chiude quando, insieme, padri e figli scorgono, lontana, l’isola: «Sì, la vedo, è bellissima».