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 2012  settembre 02 Domenica calendario

TRA FESTE, SOGNI E BAGNI DI SANGUE

La scrittrice e le immagini di quei giorni del 1917 in cui la Russia cambiò il corso della sua storia
Dalla speranza alla crudeltà nascita e morte di una rivoluzione
Qè l’istante esatto in cui nasce una rivoluzione? Vorrei ritrovare nella mia memoria quel giorno dell’inverno 1917, quando a un tratto diventò visibile, non solo per gli iniziati, per gli uomini al potere, ma per la folla, per un bambino, per me.Il giorno prima, la rivoluzione era una parola uscita dalle pagine della Storia di Francia o dai romanzi di Dumas padre. Ed ecco che le persone grandi dicevano (senza ancora crederci):«Stiamo andando verso una rivoluzione… Vedrete, tutto questo finirà con una rivoluzione!».Come è successo che la vita ha cessato a un tratto di essere quotidiana? Quand’è che la politica, disertando i giornali, si è radicata nella nostra esistenza? Quand’è infine che le espressioni «momenti storici» o «fare la Storia» hanno smesso di essere vocaboli riservati unicamente alle generazioni precedenti e hanno cominciato a poter essere applicati a noi, alla mia governante, la signorina Rose, al dvornik Ivan, al mio insegnante di letteratura, che era un socialista-rivoluzionario, a me?Eppure ci fu un momento in cui la bambina che ero ha capito «che stava succedendo qualcosa», qualcosa di spaventoso, di esaltante, di strano che era la rivoluzione, lo sconvolgimento di tutta la vita.Credo che fu il momento in cui, in una strada popolosa, non lontano dal centro della città, incontrai un corteo composto unicamente di donne, operaie di fabbrica. Si trascinavano dietro i loro figli. Ricordo una giovane donna che mi passò vicinissima; portava sui capelli uno scialle di lana grossolana e, nella falda di quello scialle, nell’incavo del braccio, aveva un bambino addormentato. Guardai il bimbo e, trovandolo carino, lo dissi ad alta voce. La madre fece un mezzo sorriso, quel sorriso quasi involontario che tocca appena l’angolo delle labbra e illumina gli occhi, il sorriso fiero e timido al tempo stesso che hanno tutte le donne quando davanti a loro, per la strada, qualcuno ha ammirato il loro piccolo.Quelle donne non cantavano, non gridavano. Spingevano innanzi a sé i bambini aggrappati alle loro gonne, li rimproveravano o ridevano con loro. Alcune chiacchieravano. Poi, a un tratto, si fermavano: le loro file sembravano fremere, e, come un coro sulla scena a una parola d’ordine che non si è udita in sala, facevano scaturire dalle bocche aperte un clamore, un lamento selvaggio e sordo che saliva, saliva, poi ricadeva e si fermava, troncato di netto.Domandavo invano alle persone grandi che mi accompagnavano: «Che cosa vogliono? Che cosa dicono?».Infine, mi parve di capire che chiedevano pane.Quello che era spaventoso, era il loro numero. Per quanto mi alzassi in punta di piedi e guardassi lontano: vedevo solo donne con lo scialle, donne con le gonne grigie, donne che tenevano i bambini sulle spalle, e che avanzavano con lo stesso passo lento e cadenzato.Non vedemmo la fine del corteo. La polizia aprì un varco alle auto e noi riuscimmo a passare. Poi non ricordo più niente fino al momento in cui, tre o quattro giorni dopo, da sola nel salone, stavo studiando il pianoforte. Sentii per la strada delle grida e dei colpi di fischietto e, dopo essere corsa alla finestra, felice di lasciare lì un istante l’odiato pianoforte, mi sembrò di veder litigare dei contadini all’ingresso di un panificio. A un tratto, cominciarono a ridere e a battere le mani. Di fronte alla nostra casa sorgeva una caserma. In cima al muro comparvero uno, due, tre, dieci soldati armati che con grida e lazzi saltarono giù in strada, la attraversarono e scomparvero. Fu così che vidi i primi soldati insorti. Come avevano fatto a fuggire? Che ne era stato degli ufficiali? Questo, nessuno lo sapeva, allora, ma tutto sembrava semplice, bonario, non ancora strano né spaventoso.Poi venne la sera. La stanza era così tranquilla con le sue pareti rosa, i suoi mobili laccati, la sua piccola lampada di porcellana accesa… Domani tutto sarebbe stato come oggi. Tutte quelle cose erano esistite da sempre e avrebbero continuato a esistere, così come la terra non avrebbe mai smesso di girare.Improvvisamente, in quel tepore, in quella pace del dormiveglia, udii un suono così nuovo per me allora che provai meno timore che sorpresa: il rumore di uno sparo. Era stato esploso lontano dalla casa, «dall’altra parte della Neva», disse la mia governante. Un secondo gli rispose, poi ne scoppiò un altro, più vicino; poi un altro, questo più lontano. Nascosi la testa sotto la coperta, per non sentire, ma, mio malgrado, immaginai la bruma sulla sponda del fiume, le tenebre, le piccole fiamme pallide per le strade e quegli uomini che si scontravano. Verso mezzanotte, tutto tacque. Ancora due giorni e la città era imbandierata di rosso.Era la rivoluzione trionfante, quella che ancora non ha versato sangue, o ne ha versato pochissimo, con il bel volto fiero e irritato che molto presto verrà alterato, degradato, dalle terribili passioni degli uomini. Brillava il sole; per le strade si vendevano fiori di carta rossa e i tram erano addobbati di striscioni scarlatti. Il popolo era gioioso, magnanimo, pieno di speranza. Poi le cose si guastarono, ed è allora che si colloca l’episodio che voglio raccontare e il cui ricordo, non so perché, in questi giorni mi ossessiona.Si sa, gli agenti di polizia tentarono di difendere l’ancien régime.Qualche giorno prima, sui tetti delle case, avevano piazzato delle mitragliatrici che, tutte insieme, cominciarono a sparare sulla folla, quella folla pigra che si attardava per le strade, faceva della settimana un’eterna domenica, pontificava agli incroci, acclamava i ritratti di Kerensky, mangiava semi di girasole e soffiava nei palloncini. Sentii per la prima volta delle grida di spavento, non di dolore (nes-
suno allora venne ferito, almeno nella nostra strada), ma dalla folla salì quel lungo ululato che chiede il sangue, quell’urlo indimenticabile che non contiene più nulla di umano, quel cupo clamore di odio e di follia. Tutti si precipitarono nelle case, all’assalto degli ultimi piani, delle soffitte, dei tetti, dove si supponeva fossero nascosti gli agenti. Quando ne trovavano uno, gli si gettavano addosso, gli strappavano i vestiti, gli sputavano in faccia, lo facevano scendere, spinto di braccia in braccia, gettato da un uomo all’altro, e, a un tratto, tra mille volti, quel viso pallido, insanguinato, scompariva. Ora, il portiere della nostra casa, Ivan, il dvornik, aveva un genero che era un agente di polizia. Da sempre, i dvorniks erano in combutta con la polizia, per la quale spesso lavoravano come informatori, ed erano temuti e vilipesi. Udimmo all’improvviso, sulla scala, tra le pareti stesse dell’edificio, la confusione della folla che saliva all’assalto.«È là! È là! Lo abbiamo trovato, quel cane!».L’agente era stato nascosto nella stanza del suocero, sotto il suo letto. Gli toccò la sorte degli altri prigionieri e non so che fine fece, ma ecco che una piccola truppa di soldati fece uscire il dvornik,
colpevole di avergli dato asilo, e lo spinse nel cortile.Dalla mia finestra, vedevo il cortile.«Non guardare! Non guardare! », gridava mia madre.Non guardare! Ci sarebbe voluta innanzitutto la forza di ritrarsi, di fare un passo, di chiudere gli occhi. Mi sembrava che i miei piedi avessero messo radici nel pavimento e che i miei occhi non si sarebbero chiusi mai più, che non sarei stata mai più capace di fare un movimento, né di lanciare un grido… Quel cortile… Quell’alta casa grigia, quel cielo brillante, non li dimenticherò mai, né dimenticherò quel vecchio calvo che camminava, senza sapere dove lo stessero spingendo, e che fecero mettere contro il muro.I soldati si misero in fila davanti a lui. Colui che li comandava disse:«Dì addio ai tuoi figli».Erano lì, quattro o cinque bambini, non ricordo più. Ma rivedo i loro abiti di cotonata rosa scolorita, le loro gambette grasse nude nella polvere. I bambini piangevano. L’uomo li baciò. Uno dei soldati prese il più piccolo, ancora un bebè, e glielo mise tra le braccia; poi, quando il padre lo ebbe stretto a sé, il soldato gli tolse il bambino, lo rimise per terra e gli accarezzò i capelli.Poi, disse al dvornik:«Recita le tue preghiere».
L’omone si inginocchiò. I bambini lo circondarono: il più piccolo, volendo imitarli, scivolò nella polvere e rimase lì, sdraiato, a muovere le gambe e a ridere. Gli altri recitarono il Padre nostro. Poi il dvornik si alzò; con passo abbastanza fermo, andò da solo ad appoggiarsi al muro. Gli bendarono gli occhi. Sentii uno sparo, e vidi… l’uomo non era morto. Avevano solo voluto fargli paura, punirlo. I soldati lo avevano fatto apposta, a prendere male la mira. L’uomo era seduto a terra; si era tolto la benda e si guardava intorno, inebetito. Era ferito, però. Una pallottola lo aveva colpito di striscio, o si era tagliato la fronte cadendo? Non lo so. Ma comunque sia vidi, cinque minuti dopo, i soldati circondare Ivan; uno di loro, quello che aveva dato l’ordine di sparare, gli medicava paternamente la ferita, la copriva con una grossa compressa di cotone e la fissava alla testa con il fazzoletto che era servito a bendare gli occhi al condannato. E Ivan, ancora pallido come un morto, con il sangue che gli colava sul viso, sorrideva di quel sorriso meravigliato e confuso degli uomini che tornano alla vita dopo uno svenimento o un’operazione, mentre i soldati scherzavano e gli davano pacche sulle spalle.I bambini avevano ricominciato a giocare.«Questi russi sono pazzi», disse la signorina Rose.E infatti tutto ciò sembrava avere l’incoerenza e la gratuità dei gesti che compiono i pazzi. Perché quella crudeltà? Com’è possibile che degli uomini infliggano un simile supplizio a un altro uomo, spontaneamente? Che gli dicano: «Ecco, è finita. Tra un istante sarai solo un cadavere», e questo davanti ai suoi figli, e poi ridano con lui e lo curino?Solo più avanti, compresi. Fu quel giorno, fu in quell’istante che vidi nascere la rivoluzione. Avevo visto il momento in cui l’uomo non si è ancora spogliato delle abitudini e della pietà umana, il momento in cui non è ancora abitato dal demonio, che già però gli si avvicina e turba la sua anima. Quale demonio? Tutti quelli che hanno visto da vicino la guerra o la sommossa lo conoscono; ognuno gli dà un nome diverso, ma ha sempre lo stesso volto sconvolgente e folle, e chi lo ha visto una volta non lo dimenticherà mai.
(Traduzione di Monica Capuani)