Fulvio Fulvi, Avvenire 2/9/2012, 2 settembre 2012
DOPPIATORI, UN’ARTE ITALIANA
Intere giornate trascorse davanti a un leggio nel buio di una sala di registrazione, per dare voce a una star di Hollywood o all’ultima delle comparse. Sudano, nel caldo dello studio, e consumano le corde vocali recitando battute per ore, attenti a ogni minima sfumatura e intonazione: quello dei doppiatori è un lavoro faticoso, prezioso e oscuro, che può determinare il successo o il fallimento di un’opera cinematografica. Si tratta di nomi spesso sconosciuti al grande pubblico – ma quasi sempre di bravi attori –, maestri in un’arte nobile nella quale gli italiani eccellono sin dal 1933, quando il doppiaggio si diffuse nel nostro Paese per via di un regio decreto voluto da Mussolini. Questa tecnica si rese necessaria, dopo l’avvento del sonoro, per togliere dallo schermo, nelle pellicole straniere, i fastidiosi sottotitoli (che distraggono e stancano lo spettatore), ma soprattutto per eliminare le dispendiose versioni multilingue di uno stesso film che uscivano dalle sale di montaggio. Era, questo, l’accorgimento che usavano le grandi case di produzione americane per favorire l’esportazione oltreoceano delle loro creature di celluloide. La Metro Goldwin Mayer, per esempio, affidò a Giovanni Del Lungo, figlio del celebre dantista fiorentino Isidoro, la traduzione dei copioni dall’inglese che venivano poi “recitati” negli studi di Culver City da attori e attrici di madrelingua italiana (perlopiù figli di emigrati che vivevano negli States e quindi parlavano con forti inflessioni italoamericane, rendendo il loro lavoro non sempre impeccabile). Tra i pionieri del mestiere, due donne: Rosina Fiorini Galli, doppiatrice di Joan Crawford e Myrna Loy, e Francesca Braggiotti, voce di Greta Garbo in Mata Hari di George Fitzmaurice, del 1931: fu lei a pronunciare la prima battuta doppiata in italiano nella storia del cinema: «Dammi una sigaretta!». La Fox, altra storica major hollywoodiana, ingaggiò invece come dialoghista Alberto Valentino, fratello del celeberrimo Rodolfo.
Fu la Paramount, però, la prima ad aprire i suoi studios in Europa per consentire un più efficace e convincente doppiaggio usando voci di attori autoctoni che conoscevano bene, oltre che la lingua, anche la cultura del loro Paese: nacque così, nel 1929, lo stabilimento di Jonville-en-Woëvre, in Francia, dove si traducevano nelle varie lingue del continente anche le didascalie dei film muti ancora in circolazione. La prima produzione doppiata qui in italiano fu Il dottor Jekyll , del 1930, per la regia di Rouben Mamoulian con Fredic March, al quale prestò la voce Olinto Cristina; due anni dopo uscì Il segno della croce di Cecil B. De Mille con lo stesso protagonista, doppiato stavolta da Franco Schirato.
In Italia, l’autarchico fascismo obbligava all’uso della lingua madre e il governo del Duce (che riteneva il cinema il più grande mezzo di propaganda) varò nel 1933 una legge che vietava la proiezione sul territorio nazionale di un film straniero doppiato all’estero. Così, con il rifacimento dei dialoghi, si poteva italianizzare tutto ed espellere ciò che arrivava da fuori e non piaceva al regime (dai nomi stranieri all’antiromanità). Nacque allora un nuovo (e allora assai remunerativo) mestiere del cinema a cui si dedicarono molti attori teatrali che magari non pensavano di avere una grande “cinegenicità”. Le loro voci divennero subito celebri quasi come i volti degli eroi di celluloide che venivano dall’America, rendendoli in tal modo ancora più popolari. Tra i primi film della storia a essere doppiati (ma sarebbe meglio dire “sonorizzati”, perché si riproducevano anche i rumori e le musiche), gli americani I pionieri del West (titolo originale: Cimarron) di Wesley Ruggles e Alleluja di King Vidor, del 1929. Ma anche le comiche, che trovavano grande riscontro nel pubblico erano soggette a doppiaggi e adattamenti “particolari” nelle varie lingue. Oliver Hardy e Stan Laurel, Ollio e Stanlio (che in un primo momento venivano detti Cric e Croc), furono doppiati in Italia con un buffo e ridicolo accento anglofono da un giovanissimo Alberto Sordi e da Mauro Zambuto, attore divenuto in seguito docente universitario di fisica elettronica. Ma cosa fa, di preciso, un doppiatore? Si limita a ripetere le battute che legge dall’adattamento (la traduzione in italiano del copione originale adattata ai movimenti labiali degli attori) rispettando ritmi, intonazioni e movimenti labiali degli attori che compaiono sullo schermo?
Fosse solo così, una questione di sincrono, sarebbe già un lavoro difficile. Ma non esiste solo la tecnica, nel doppiaggio. Bisogna dare al parlato il senso e l’atmosfera voluta dall’autore del film. Ed è anche così, cioè recitando, che si può falsare o peggiorare un’opera nel buio di uno studio. All’inizio i doppiatori lavoravano con gli “anelli”: la pellicola, cioè, veniva tagliata in pezzi che duravano ternta-quaranta secondi dove potevano, con relativa tranquillità, incidere la loro voce sotto la guida di un direttore, l’unico, ancora oggi, a vedere il film per intero prima di assegnare le voci e spiegare ai doppiatori il ruolo da interpretare. Il lavoro poteva durare anche tre settimane. Oggi, con il digitale, si fa quasi tutto di un fiato: può bastare anche una sola settimana per doppiare un film.