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 2012  settembre 03 Lunedì calendario

APERTURA FOGLIO DEI FOGLI 3 SETTEMBRE 2012

«Ho la competenza giusta per fare il presidente, ho il piano e la visione di lungo termine. Sarò l’amministratore delegato che vi guiderà fuori da questa crisi, ricostruirò il Sogno americano»: giovedì Mitt Romney ha chiuso a Tampa la convention repubblicana con il discorso che nelle sue speranze dovrebbe trasformarlo nel 45esimo presidente degli Stati Uniti. Federico Rampini: «È la grande occasione che il 65enne ex governatore del Massachusetts inseguì invano nel 2008 quando fu eliminato nella corsa alla nomination». [1]

Romney si è ricandidato contro tutti (famiglia compresa). Massimo Gaggi: «E non si è mai fatto abbattere, durante l’estenuante corsa delle primarie, dall’improvviso emergere di candidati che sfidavano — e a volte con successo — il suo ruolo di favorito. Così giovedì sera, nell’accettare ufficialmente la designazione del partito repubblicano, ha riversato nel suo discorso tutte le dolorose esperienze degli ultimi anni per evitare di ricadere nella caricatura del personaggio poco umano, emotivamente non coinvolto, dalle convinzioni ideologiche volatili sulle quali vengono costruiti programmi “double face”». [2]

Rifacendosi a Ronald Reagan (presidente dall’81 all’89), Romney fa appello all’antico individualismo americano: «Obama incita alla lotta di classe, all’invidia sociale. Dichiara guerra a chi ha avuto successo economico». Rampini: «Se Reagan aveva come spauracchio l’Impero del Male (l’Unione Sovietica), oggi il modello negativo è l’eurozona: “Obama vuole cittadini dipendenti dall’assistenza pubblica, se viene rieletto ci trasformerà in una società sclerotizzata come quelle europee, a furia di debiti faremo la fine dei Paesi deboli dell’eurozona”». [1]

Giovedì Romney ha virato verso il centro. Mario Platero: «Un centro secondo lui tipicamente americano, un centro ridefinito da Ronald Reagan ma sposato da un presidente democratico come Bill Clinton e dimenticato da Barack Obama che ha invece virato a sinistra con mille formule di interventismo ora sociale, ora assistenziale ora economico con proposte di nuove regole, nuovi controlli, nuovi programmi sociali e nuove tasse. C’è da dire che l’America è in effetti fondata su un “core value” che riflette il messaggio di Romney per l’individualismo, il libero mercato, la concorrenza». [3]

«Sono artefice del mio destino» ha detto Romney giovedì. [4] Figlio del George (1907-1995) che fu presidente dell’American Motors Corporation (1954-1962), governatore del Michigan (1963-1969), candidato alle primarie repubblicane (1968, vinse Richard Nixon), ministro dello Sviluppo Urbano (1969-1973), non è però un self-made man. E secondo molti neanche un imprenditore. Rampini: «Finanziere, speculò sulle crisi aziendali, si arricchì smembrando e rivendendo imprese in difficoltà, spesso dopo licenziamenti di massa; ora il suo patrimonio riposa in un conto offshore alle isole Caimane, tassato meno della busta paga di un impiegato». [1]

Per Romney la differenza tra destra e sinistra è presto detta: «Mentre Obama pensa al pianeta, io penso alle famiglie americane». Michele Serra: «“Obama pensa al pianeta” è una perfidia ben concepita. Per l’elettorato di Romney il pianeta è solo una remota seccatura, con tutti quei Paesi dai nomi strani che ogni tanto tocca bombardare. Ma anche l’opinione pubblica liberal e di sinistra (di tutto il pianeta) vorrebbe tanto che i suoi leader fossero un poco più concreti, anche a costo di essere meno nobilmente ispirati nei loro discorsi». [5]

Per il candidato repubblicano, questa elezione deve essere un referendum sul presidente uscente: «Se siete contenti di come state oggi, se l’America vi sembra in buona salute, accomodatevi pure per Obama 2». [6] La sfida al 44° presidente è modellata in maniera da corteggiare gli elettori che nel 2008 lo votarono ma oggi ne sono scontenti. Molinari: «“Obama deve essere sconfitto non perché è una cattiva persona, un cattivo padre o marito ma perché è un cattivo presidente” sono state le parole del senatore quarantenne della Florida Marco Rubio». [4]

Romney ha ricevuto la benedizione del cardinale Timothy Dolan, il «papa d’America». [2] Rampini: «E il voto cattolico è una grossa posta in gioco, per stabilire che vincerà il 6 novembre. La scelta di Dolan è tanto più significativa, visto che Romney è un leader della Chiesa mormone, nella quale ebbe l’incarico equivalente a un vescovo nella diocesi di Boston. Fino a un passato recente i mormoni (ufficialmente “Chiesa di Gesù Cristo dei santi degli ultimi giorni”) erano considerati dalle altre comunità cristiane alla stregua di una setta fanatica e oscurantista. Praticano una fede a dir poco reazionaria. In passato hanno legittimato la poligamia, e sancito l’inferiorità delle donne e della razza nera agli occhi di Dio». [7]

Nel 2006, quando si iniziò a parlare di un Romney candidato alla Casa Bianca, un sondaggio stimò nel 43% gli statunitensi che gli avrebbero negato il voto a causa della religione. [8] Ecco spiegata la scelta come candidato vicepresidente del cattolico Paul Ryan. Rampini: «Nel 2008 i cattolici Usa votarono a maggioranza per Barack Obama, con uno scarto di 9 punti percentuali. Anche Obama ha un vice cattolico, Joe Biden. Tra Biden e Ryan c’è un fossato valoriale. Il vicepresidente in carica è il fautore di un cattolicesimo sociale, mette l’accento sulla lotta contro le ingiustizie. Ryan è un integralista noto per le sue crociate contro l’aborto. È su questi temi che il cardinal Dolan si schiera senza esitazioni». [7]

Sul voto del 6 novembre peserà soprattutto la componente demografica. Platero: «La statistica parla chiaro: Obama dovrebbe ottenere l’80% del voto delle minoranze ma solo il 40% del voto bianco mentre Romney punta al 61% del voto bianco che conta per il 74% del voto nazionale. Alla fine, dopo le mille analisi, le trovate di immagine, gli spot televisivi, i discorsi alle convenzioni, Romney dovrà fare il possibile per migliorare la sua posizione nei confronti del voto delle minoranze e per garantirsi che il voto bianco – e soprattutto quello delle donne single che lavorano, favorevoli a Obama – si sposti anche solo marginalmente a suo vantaggio». [3]

La sfida è apertissima (alla fine della settimana scorsa - sulla non determinante base nazionale - 47 a 46 per Romney, per citare uno dei tanti sondaggi). Nei prossimi 65 giorni sarannno oggetto di grande attenzione le dinamiche in quella decina di Stati spaccati a metà che per una manciata di voti decideranno le elezioni. Mario Platero: «Il problema per Romney non è soltanto quello di essere indietro di un soffio, o al massimo pari, negli Stati chiave, piuttosto che dovrà vincerli più o meno tutti. Non sarà facile superare Obama in Florida, Ohio, Colorado, Nevada, New Mexico, Iowa». [9]

Più che il politico, Romney teme l’uomo Obama. Gaggi: «Se in vari Paesi europei piegati da una crisi economica pesantissima, gli elettori hanno disarcionato senza alcun imbarazzo leader forti ma non particolarmente carismatici come Gordon Brown in Gran Bretagna, Sarkozy in Francia e Zapatero in Spagna, in America la situazione si presenta un po’ diversa proprio per la peculiarità del fattore Obama: perché è vero che dal Dopoguerra nessun presidente è mai stato riconfermato con un tasso di disoccupazione elevato come quello attuale, ma è anche vero che l’elezione del primo presidente nero ha segnato una discontinuità senza precedenti nella storia americana». [10]

Note: [1] Federico Rampini, la Repubblica 31/8; [2] Massimo Gaggi, Corriere della Sera 31/8; [3] Mario Platero, Il Sole 24 Ore 31/8; [4] Maurizio Molinari, La Stampa 1/9; [5] Michele Serra, la Repubblica 1/9; [6] Federico Rampini, la Repubblica 1/9; [7] Federico Rampini, la Repubblica 27/8; [8] Christian Rocca, Il Foglio 23/11/2006; [9] Mario Platero, Il Sole 24 Ore 1/9; [10] Massimo Gaggi, Corriere della Sera 1/9.