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 2012  agosto 31 Venerdì calendario

ADESSO CHE SONO DIVENTATO UN UOMO COME GLI ALTRI


Porge la mano, fissa i suoi occhi verde chiaro nei nostri e ritiene opportuno presentarsi: «Buongiorno, Zinédine». La precisione ci fa sorridere. È del tutto inutile. Come non riconoscere l’uomo che ha offerto alla Francia 1’occasione per pavoneggiarsi davanti all’intero pianeta calcio una sera del luglio 1998? Come dimenticare l’icona di una generazione assillata dal fantasma di Michel Platini, quando era ancora troppo tenera per apprezzare la geniale follia di Eric Cantona? Zinédine Zidane è immediatamente riconoscibile, perché la sua figura longilinea non è cambiata, sei anni dopo che il suo proprietario ha smesso di infliggerle il rigore dello sport ad alto livello. Sotto la polo nera e i jeans grezzi, s’intuisce una corporatura più leggera e più agile. La muscolatura si è ridotta, ma il corpo è rimasto asciutto, teso, dinamico; tutto il contrario di quei pensionati del calcio che, una volta chiuso per sempre l’armadietto dello spogliatoio, fanno cadere la barriera delle restrizioni. Alcune rughe striano gli zigomi. La barba grigia vira al bianco qua e là. Ma nulla ha alterato la finezza di quel volto sempre emaciato.
Fatta la fortuna e conquistata la gloria, Zidane gode inoltre del “principio di George Clooney”, una legge di natura secondo la quale alcuni uomini, indiscutibilmente ricchi, hanno il privilegio di acquisire fascino con il passare degli anni. Ma Zizou ci rassicura subito sulla Divina Provvidenza: «Ogni giorno corro quarantacinque minuti e gioco a tennis di tanto in tanto. Il fisico per me è importante. Per questo, occorre mantenere una certa igiene di vita. Cerco di mantenermi in forma. Sono un padre di famiglia (ha quattro figli, ndr), ho una moglie, dei genitori, degli amici. Non voglio cambiare ai loro occhi». Ne ai suoi? Questa volontà di mantenere un fisico atletico tradisce forse il desiderio inconscio di non perdere quel corpo da campione che lo ha consacrato? «Oh no! Il mio corpo di sportivo è una realtà molto lontana. Tutto questo è solo apparenza. Qualunque sforzo superiore a quel che posso fare ogni giorno, quando vado al mio ritmo, mi fa soffrire. Ogni volta che c’è da fare una partita, anche di gala, finisco dolorante. E faccio molta fatica a recuperare. Uscire, bere qualcosa. Nulla è più come prima...». Zidane ha 40 anni. Temuta da ogni uomo, la crisi dei 40 anni non lo tormenta più di tanto: «Sì. Quarant’anni... Sono volati via. Ma va bene così. Tanto, a me gli anni non sono mai pesati. Per esempio, non mi sono mai fatto problemi per i miei capelli». Zidane sta bene nella propria pelle e nelle proprie sneaker Yohji Yamamoto. E nella testa?
Sono ormai sei anni che Zinédine Zidane ha abbandonato il campo, dopo quel gesto infelice, nel luglio 2006, durante la finale dei Mondiali. E da allora? Che ne è di lui? E come immagina il futuro? Alcuni giorni prima di incontrarlo, temevamo l’inferno dei suoi silenzi. Perché Zidane è un uomo di poche parole. Visceralmente pudico, si lascia andare di rado a sfoghi personali. «Ho l’impressione di conoscermi già bene. Non mi confido facilmente», ammette. Per andare a “recuperare” quest’uomo così segreto, proviamo un’acrobazia giornalistica: avanzare sul suo campo a colpi di teorie e ipotesi, che dovrà convalidare o meno. Scegliendo a sua volta la strada dell’allegoria, l’architetto Christophe Gulizzi ha ideato lo Z5 (z5complexe.com), complesso sportivo di Aix-en-Provence dedicato al calcio a cinque, di cui sono proprietari Zidane e i fratelli, e dove veniamo ricevuti. Questo mini-villaggio sportivo è costruito in un edificio monolitico, nero e compatto, che diventa più accogliente via via che ci si avvicina, rivelando uno spazio luminoso, colorato. Il complesso ha il compito di «materializzare l’aura di un’icona» e raccontare il padrone di casa: freddo dall’esterno, aperto e caldo all’interno. L’architetto ha colto nel segno?. «Non so», sorride Zidane. «Ma ho trovato la sua idea interessante. Probabilmente mi rispecchia un po’...».
Sull’orlo dell’introspezione, osiamo aprire la porta evocando Aimé Jacquet, commissario tecnico dei campioni del mondo ’98, che disse: «Osservate bene l’espressione di un calciatore in campo, è la sua fotografia nella vita». Questa regola vale anche per lui? «Non so se si possa dire così per me, perché nella vita sono timido e riservato, mentre in campo non lo ero. Ero un tipo molto duro. Con me stesso, prima di tutto. E con gli altri. Non ero un tipo facile, non lasciavo fare. Sapevo cosa volevo, dove intendevo arrivare. Nella vita, sono comunque un tipo discreto. Vabbe’, non del tutto», mitiga sorridendo. «Ma mi piace la tranquillità. In campo, non mi piaceva. Avevo sempre bisogno che accadesse qualcosa, era così che mi nutrivo».
L’ultima volta che la Francia lo ha visto giocare, è successo molto di più di quel «qualcosa» tanto agognato. Espulso nella finale dei Mondiali 2006 per aver assestato quell’ormai famosa testata a Marco Materazzi, il capitano dei Bleus lasciò dietro di sé dei compagni di squadra disorientati e un Paese attonito. Soprattutto, diede la stura a una baraonda mediatico-sportiva senza precedenti. Nessuno capiva, tutti parlarono a vanvera. La cronaca sportiva arrivò a evocare un eccesso emotivo che era da prevedere: l’uomo è impulsivo. Psicologi del lavoro diagnosticarono un “burnout” da dirigente sotto pressione. Si intromisero anche i politici e la palma dell’interpretazione spettò a Laurent Fabius: «Esistono gli dei, esistono gli umani ed esistono semidei che vengono chiamati eroi», disse l’allora ministro degli Esteri. «Si pensava che Zidane fosse un dio ed è semplicemente un eroe. È dotato di qualità straordinarie e, nel contempo, è un mortale». In un sussulto istintivo degno dell’affare Dreyfus, la Francia si divise in due. Gli uni gridarono all’offesa fatta alla Nazione, gli altri approvarono la normale reazione di un uomo ferito nell’onore. Sei anni dopo, la Francia ha perdonato il «semidio-eroe-mortale», come testimonia il suo primo posto nella classifica JDD degli sportivi più amati, pubblicata lo scorso marzo. Sembra che la ferita bruci ancora, ma l’argomento non è più tabù: «La gente ricorda ciò che ho dato, che c’è stato di più di quello (la testata, ndr). Quest’ultima immagine è terribile per me, e di sicuro per molta gente. In una carriera, e nella vita tout court, ci sono alti e bassi. Non sono fiero della mia restata, è ovvio. Fa parte di quelle cose difficili da accettare. Sono già stato offeso. È successo nella finale dei Mondiali. È capitato quella volta lì. Ed è capitato male. Insomma ecco...». Teso, sospende la frase con un soffio triste. Le immagini sfilano probabilmente nella mente di quest’uomo che aveva già deciso alcuni mesi prima di porre fine alla sua carriera sul suolo tedesco, qualunque cosa fosse accaduta. «Avrei potuto fare un anno o due in più. Sapevo che l’adrenalina delle grandi partite mi sarebbe mancata. Mi mancherà per tutta la vita. Ma ero arrivato alla fine. È stato semplice, perché sono stato io a prendere la decisione di smettere, e questo è comunque meno difficile di quando ti senti dire: “Be’, signore, adesso è l’ora...”».
Quella di «entrare in un’altra fase della vita» di cui si sofferma a disegnare i contorni. «Mi sto formando, sono a bottega per la mia vita futura». Jacques Bungert, capo del brand di abbigliamento Courrèges e grande amico dell’ex star, precisa: «Zinédine sa di non aver avuto una formazione scolastica regolare, ma ovvia a questa mancanza con un’intelligenza istintiva. Impara dalle esperienze degli uni, dal discorso di altri, e agisce di conseguenza. È una spugna». Già quando era calciatore, sapeva osservare e adattarsi. Fin nei minimi dettagli. Nell’estate del 1996, appena trasferito alla Juventus, scopre il rigore tattico e l’estenuante preparazione fisica all’italiana. Ma non solo. Racconta: «All’epoca, indossavo dei calzini corti a righe multicolori. Un giorno, dopo uno dei primi allenamenti, li trovo tagliati a brandelli, attaccati con lo scotch al mio armadietto. Sapeva di nonnismo... Subito, dei tizi della squadra vengono da me: “Amico, le calze, devono essere lunghe. E in tinta unita. Se no, non ci siamo”. In quel momento, ho capito che anche lo stile aveva la sua importanza in uno spogliatoio italiano. Alcuni calciatori venivano ogni giorno in giacca e cravatta agli allenamenti. Ogni giorno! Si facevano rispettare anche così. È impressionante vedere le proporzioni che lo stile e la moda prendono laggiù. E fino a che punto possano contare in uno spogliatoio». Da allora, Zidane li ha presi a modello. Gli piacciono gli abiti italiani. E una certa forma di lusso, senza gli eccessi tipici della maggior parte dei calciatori. Dieci anni dopo, a Madrid, è con la stessa capacità di osservazione che intraprende il dopo-carriera. Ambasciatore del Real dal 2006 al 2011, in un ruolo cucito su misura per le star di casa nei grandi club, dai contorni tuttavia molto misteriosi, Zidane sarà presto supervisore del settore giovanile dei Merengues, un anno dopo essersi immerso di nuovo nel quotidiano dello spogliatoio come direttore sportivo della squadra di José Mourinho.
«In pratica, significava chiarire i dubbi di un calciatore, risolvere un problema legato a un premio, assistere agli allenamenti e parlare di contenuto con i calciatori. Per me, era l’occasione di scoprire il calcio dall’altro lato della barricata», spiega. Christophe Dugarry, campione del mondo ’98 e suo amico da vent’anni, aggiunge: «A Madrid sta scoprendo tutta la gamma delle professioni che fanno girare un club. A contatto con i giovani, avrà un vero potere decisionale, dovrà compiere scelte strategiche. Difficile dire ciò che farà tra cinque anni. Me lo vedo presidente di club perché, anche se da fuori non si vede, Zizou è un uomo che non teme di assumere responsabilità. Oppure commissario tecnico, perché ha la legittimità e l’aura necessaria riconosciute dai calciatori di oggi».
Ruoli sorprendenti, per un taciturno. Zidane, in effetti, (padroneggia l’arte del silenzio. O più precisamente quella di sapersi esprimere al momento giusto. Così non presta quasi mai il fianco alle critiche, specie quando la Francia, privata del suo eroe nazionale in esilio, osa attaccare il mito. Si alzano voci irritate per il suo ruolo di uomo-sandwich che difende i colori dei numerosi sponsor e partner. Come se lui, figlio di un immigrato magazziniere in un supermercato, non avesse il diritto di cedere alle sirene dello sport business. «Queste critiche vengono da persone che non mi conoscono», spiega con calma. «Per me, tutti questi partner, sono incontri, storie, cose da fare. Sono cose che imparo, persone diverse dal mondo che ho sempre conosciuto. Ne traggo tante cose. Ci sarà sempre qualcuno che dirà che lo faccio per i soldi. È inevitabile... Ma occorre sapere che dopo il 1998 ho risposto al cinque per cento delle proposte che ho ricevuto». L’ultima “faccenda” in ordine di tempo ha fatto molto rumore. Alla fine del 2010, contemporaneamente alla designazione del Qatar come Paese organizzatore dei Mondiali 2022, la stampa rivela che Zidane ha appoggiato questa candidatura in cambio di diversi milioni di petrodollari. Lui, questa volta, si spazientisce: «Io non ho percepito un solo franco (sic). Il denaro è stato trasferito alla mia fondazione e ad altre associazioni. Perché non ho reagito di più? Se rispondessi a tutte le critiche, non la finirei più! E poi della mia vita faccio quel che mi pare!». Una vita già piena, di cui fa per ora questo breve bilancio: «Si è in un bozzolo per diciassette, diciotto anni. E poi la vita riprende il sopravvento. Ed è bene che sia così. Quando smetti di giocare, ridiventi un Signor Nessuno». Insomma, nel suo caso, non del tutto...