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 2012  agosto 31 Venerdì calendario

LAMA NON L’AMA


In una pausa, durante una seduta di mixaggio in uno studio di registrazione milanese, l’artista hip-hop tibetano-americano Gomo Tulku fa ascoltare il campionamento che vuole inserire nell’intro del suo EP d’esordio: un coro che intona quello che assomiglia in maniera inquietante a un inno buddista tibetano. Uno dei produttori italiani lo aveva programmato su una tastiera, e lui ricorda di aver detto, sentendolo: «Che sballo, lo voglio! Yo, questa è la mia cultura!».
Gomo Tulku sembra il ritratto dell’aspirante rapper: jeans, piumino nero senza maniche, cappello pork pie grigio, occhialoni nero e oro della Super (un marchio milanese apprezzato da Jay-Z e Rihanna). In realtà, però, il ventitreenne cantante non è per niente il playboy ritratto nel video del suo primo singolo, Photograph, dove lo si vede bere in discoteca e girare su una limousine in compagnia di una banda di bellezze italiane che gli si strusciano addosso. Gomo, noto anche come il Rapping Lama, è stato allevato sin dall’infanzia per diventare un lama di alto livello, e quel video ha causato un piccolo scandalo nella comunità buddista on line. Gomo, però, è quasi astemio e sostiene che Photograph è semplicemente una canzone sulla fine dell’unica storia d’amore che abbia avuto da quando ha lasciato il monastero. L’ambientazione del video con le belle ragazze è stata un’idea del regista italiano.
“Tulku” è una parola che allude allo status religioso: secondo la tradizione tibetana, un tulku è la reincarnazione di un grande lama deceduto da poco, “riconosciuto” come tale dal Dalai Lama in persona attraverso una procedura mistica che implica presagi e visioni.
Gomo ha intitolato l’EP Take One perché «questa è la prima vera esperienza della mia vita da laico in questo mondo materialistico», dice. È abbastanza avveduto da sapere che i suoi anni da bonzo rappresentano un retroterra piuttosto affascinante per un rapper. Ma quando l’attuale Dalai Lama, ora 77enne, uscirà di scena, quel mondo di tradizioni religiose e di esplorazioni spirituali rischia davvero di ridursi al campionamento di un coro in una canzone hip-hop? Il giovane Karmapa, presumibile erede del Dalai Lama quale volto mondiale del buddismo tibetano, langue nel nord dell’India per via delle tensioni politiche con la Cina. In sua assenza, i giovani tulku occidentalizzati possono diventare lo strumento per convertire una nuova generazione al buddismo tibetano. Il problema è che questi tulku cosmopoliti, poco convinti di essere reincarnazioni di lama defunti, non sono sicuri di volersi assumere questa responsabilità.
IL SUTRA DI UN RAPPER
Il destino di Gomo sembrò deciso quando lui aveva tre anni, e il Dalai Lama lo individuò come la reincarnazione del nonno dello stesso Gomo, un eminente lama tibetano. I primi anni di vita furono piuttosto movimentati. Nato nella francofona Montreal, si trasferì a cinque anni con la madre (i genitori avevano divorziato) a Bountiful, Utah, sobborgo di Salt Lake City, a maggioranza mormone. L’anno successivo, la madre e il suo unico figlio raggiunsero Pomaia, in Toscana. Trascorso un altro anno, il Dalai Lama sottopose Gomo alla tonsura, primo passo dell’iniziazione al monachesimo. «Ero nervoso», racconta Gomo. «La sua presenza si faceva sentire». Dopo un’intera giornata in studio, Gomo e io partiamo in auto per Pomaia: lì, in una villa in pietra del Cinquecento, ha sede l’Istituto Lama Tsong Khapa. Il “Piccolo Tibet toscano” (così lo descrive un sito web turistico) è una tappa frequente per celebrità come Richard Gere e il Dalai Lama. L’indomani mattina, tra le statue dorate del Buddha, gli elaborati arazzi di seta e i ritratti del Dalai Lama della sala di meditazione, Gomo mette una tacita determinazione nelle sue preghiere.
«Qui mi sembra di tornare ai tempi del monastero», dice, finito il raccoglimento. «Pregavamo sempre. Appena entro in uno di questi posti, mi sforzo di avere i pensieri giusti, le giuste intenzioni, e rammento a me stesso i fini che dovrei perseguire».
Gomo visse per un solo anno a Pomaia, perché poi fu mandato nel monastero di Sera Je, nei pressi di Mysore, in India, dove sarebbe rimasto complessivamente dodici anni.
Le sue giornate da monaco si svolgevano così: sveglia alle sei del mattino, preghiere, canti, memorizzazione di pagine e pagine dei testi sacri e pratica del dibattito logico buddista fin quasi a mezzanotte. Tutti i giorni. «È stata dura», dice. «Non per quel che mi è staro dato, ma per quello che mi era stato tolto». A 15 anni cominciò a coltivare un proposito audace: ricongiungersi con la madre per frequentare un anno di liceo in America. A Bountiful si ritrovò a essere lo strano ragazzino asiatico che parlava un inglese stentato e che aveva «probabilmente 1’aspetto di uno scemo». Non aveva rinunciato ai voti monacali — niente sesso, niente alcol — ma di questo non parlò con nessuno dei compagni di classe, a parte il suo migliore amico. Comunque, in confronto alla sua vita precedente, quel soggiorno fu una liberazione. Il suo momento di illuminazione da “albero della bodhi” ebbe luogo in un negozio della Apple a Salt Lake City, di fronte al video di Bring ‘Em Out, di T.I, trasmesso su un nuovissimo iPod da 60 Giga. Quel pezzo di gangster rap spudorato lo «sopraffece». «Aveva un’energia che mi mandava fuori».
La musica è stata la sua ancora di salvezza, sotto forma di cuffiette e lettore cd portatile. Tre anni fa ha smesso l’abito da monaco ed è tornato a Pomaia. Nei diciotto mesi successivi ha abitato a Milano e, se si eccettua una breve storia d’amore con una studentessa guatemalteca, si è dedicato alla musica con zelo monacale, mantenendosi con i soldi di mecenati italiani.
Pur essendo stato nominato “Miglior voce maschile” al Premio della musica tibetana dello scorso anno, grazie a un solo singolo uscito on line (Photograph), Gomo attende con ansia che lo showbiz musicale lo sottragga all’oscurità. Scrive pezzi melodici molto serrati, un po’ rappati, un po’ cantati con una voce lieve e suadente: una specie di Chris Brown o di Drake, ma con un vistoso tocco da boy band. Al ramo italiano della Universal Records il suo sound piace, ma Gomo sta ancora aspettando un contratto.
Domando a Gomo se immagina cosa pensi di lui il Dalai Lama. «Starà guardando i miei video su YouTube, e dirà: “Tanta roba!”», scherza Gomo. Poi, nel tono più serio da cui il suo stile hip-hop non si allontana mai di molto, aggiunge: «Sarebbe un onore, per me, se lui sapesse qualcosa di me. Pensavo, anzi, di andare a trovarlo. Vediamo che cosa succede con la musica: se matureranno le condizioni, andrò a parlargli».
ASHOKA MUKPO:
L’OMBRA BIANCA DEL BUDDISMO
Se tuo padre è un ebreo newyorkese, tua madre un’aristocratica inglese e tu ti chiami Ashoka Mukpo, finirai per passare molto tempo a rispondere a domande sulla tua identità. La madre di Ashoka, Diana, sposò Trungpa a 16 anni, adottando il nome della famiglia tibetana, Mukpo. Restò assieme a lui per tutti gli Anni 70, durante i quali lui costruì il suo impero simil-hippie, con capitale a Boulder, Colorado, e ottenne una più ampia rinomanza in campo culturale come guru di Allen Ginsberg e Joni Mitchell. A differenza del Dalai Lama, che si attiene a un buddismo elementare — ridurre al minimo la sofferenza nella vita — Trungpa iniziava i propri discepoli al versante tantrico della tradizione: la sua comunità era famosa per le grandi feste a base di alcol e sesso, giustificate come esercizi per trasmutare il veleno dell’alcol e liberarsi dai vincoli dell’amore romantico tradizionale.
Ashoka fu riconosciuto come tulku quando aveva un solo mese di vita. Il precedente Karmapa convocò Trungpa per annunciargli che aveva fatto un sogno: Ashoka era la nona reincarnazione del Khamnyon Rinpoche. Il ragazzo, che vive a Londra con la fidanzata, è brillante e assertivo, guidato da un idealismo e un senso della giustizia che lo hanno portato, dopo il college, a lavorare per tre anni con l’organizzazione no-profit Human Rights Watch e, più di recente, a frequentare la London School of Economics, dove ha conseguito il master in Sviluppo internazionale. La sua crisi d’identità ha assunto un risvolto commovente nel corso di un viaggio con la famiglia in Tibet, quando lui aveva 22 anni. «Il mio titolo ha grande importanza per la gente», dice. «C erano donne anziane e bambini che mi si avvicinavano piangendo. Contadini poverissimi che mi offrivano i risparmi di una vita! A volte penso che non è stata una mia decisione, quella di assumere questo titolo, ma ora sento che qualcuno mi ha messo nella condizione di rinunciarvi. Per me, precipitare troppo a fondo nella tana da coniglio della cultura tibetana non ha senso», dice. E l’establishment tibetano non ha certo fatto pressione perché lui rimanesse. «È facile per loro mettermi da parte. Io sono il bianco».
KALU RINPOCHE:
IL FIGLIOL PRODIGO
Una delle più grandi speranze del buddismo tibetano è il ventiduenne Kalu Rinpoche, che è a capo di una società globale formata da 44 monasteri e centri di insegnamento. Molti dei seguaci sono ereditati, essendo stato riconosciuto all’età di due anni come l’incarnazione di Kalu Rinpoche, morto nel 1989, uno dei lama più influenti in Occidente dopo il Dalai Lama. Il suo vero monastero, però, è on line: lui stesso si definisce «il primo Rinpoche di Facebook» perché gestisce sul social network una serie di pagine private e pubbliche con migliaia di “amici” e di “like”.
Kalu è un giovane snello e di una bellezza pulita, la fronte precocemente alta, lunghe basette sotto una coppola bianca. Nato in una facoltosa famiglia tibetana e vissuto in India e in Bhutan, da bambino ha assorbito la cultura occidentale nel monastero in cui abitava, nei dintorni di Darjeeling, in India. Oggi è un piccolo principe buddista tutto solo, alla deriva su un cyber-asteroide. «In realtà, non ho mai avuto un vero amico», dice. «Non ho mai pensato di una persona che fosse la mia migliore amica. Una relazione sentimentale è una cosa diversa». Un anno fa era sul punto di sposare una ragazza tibetana, e ora si è preso una “pausa” dopo una fidanzata argentina.
Lo scorso settembre, dopo una lezione tenuta a Vancouver, una persona nell’uditorio chiese a Kalu di parlare delle molestie sessuali nei monasteri. Lui rispose di essere sensibile all’argomento poiché ne era stato vittima. Due mesi dopo, postò un video su Facebook, che fece di lui una specie di appestato nell’ambiente del buddismo tibetano tradizionale e un eroe per la coscienza di alcuni occidentali. Nel video racconta di aver subito «abusi sessuali da monaci più anziani» e che, quando aveva 18 anni, il suo tutor lo aveva minacciato con un coltello. «Ed è tutta una questione di soldi, di potere, di controllo. Dopo di che, a causa di tutte queste vicende, sono diventato un tossicomane e sono impazzito». Si trattava di sesso hard-core, dice, con tanto di penetrazione. «Nella maggior parte dei casi si presentavano uno alla volta», dice Kalu. «Si limitavano a bussare con più forza, e io dovevo aprire. Sapevo quel che sarebbe successo, e poi ci si fa quasi l’abitudine». Solo quando rientrò al monastero dopo i tre anni di ritiro, Kalu si rese conto di quanto fossero sbagliate quelle pratiche. A quel punto, la storia era ricominciata con una nuova generazione di vittime, dice.
GOMO E OSEL:
IL RITORNO DEGLI OM BOYS
In un soleggiato pomeriggio, a Pomaia, Gomo è seduto presso la gigantesca ruota della preghiera dell’Istituto Lama Tsong Khapa con Osel Hira. Spagnolo, 27 anni, Osel era un lama bambino prodigio, oggetto di una biografia già all’età di tre anni: suscitò scandalo, una decina danni fa, lasciando il monastero senza avvertire nessuno, per tornare in Europa a cercare se stesso. Sia lui sia Gomo si potrebbero facilmente considerare due apostati, ma questi lama mancati porrebbero anche essere i precursori di un tipo di buddismo nuovo, accessibile, aperto ai giovani, legato tanto ai costumi sociali occidentali quanto alle forme della tradizione tibetana.
Mentre la conversazione si sposta sulla nascente carriera hip-hop di Gomo, io accenno al fatto che uno dei pezzi dell’EP, Don’t You Know lancia un messaggio buddista piuttosto limpido: «Lascio che la vita segua il suo corso / Sul suo campo da golf io non sono che il caddy». Con il tono tipico del maestro buddista che non diventerà mai, Gomo risponde: «È proprio questo il punto. Io sono il dharma. Non so se ne sei cosciente, ma anche tu puoi esserlo: logico e compassionevole, freddo e sensibile. Chiunque può riuscirci, non soltanto i buddisti».