Ilaria Solari, Gioia 27/8/2012, 27 agosto 2012
SILVIA GIRALUCCI: CI SONO COSE CHE SOLO NOI EX BAMBINI DEL TERRORISMO POSSIAMO CAPIRE
Non è un film su mio padre». La voce di Silvia Giralucci, impastata di Veneto e note gravi, gira sulla stessa frase, come un mantra. Per la figlia giornalista di Graziano, militante di destra e vittima delle Brigate rosse, è davvero importante spiegare così Sfiorando il muro, il documentario che presenterà alla prossima Mostra del cinema di Venezia: «È un lavoro sulla memoria degli anni Settanta, non una commemorazione personale». Un’impresa minuziosa di ricostruzione a cui si dedica da tempo, sfociata l’anno scorso anche in un libro, L’inferno sono gli altri (Mondadori).
Nel libro e ora nel film, insieme all’agguato alla sezione del Msi di via Zabarella, a Padova nel 1974, in cui morirono il padre, rappresentante di commercio ed ex rugbista, e il custode Giuseppe Mazzola, le prime vittime rivendicate dalle Brigate rosse, Silvia ripercorre l’alba degli anni di piombo. Visti da Padova, piccola città da cui è passato un pezzo di storia: da lì partivano, qualche anno prima, le due valigie dirette a piazza Fontana; nel suo storico ateneo arringavano i «cattivi maestri»; sulle sue strade si consumava una violenza continua e diffusa, «incendi, gambizzazioni, espropri, angherie quotidiane senza pari in Italia: il laboratorio di sovversione che ha avuto la più larga presa giovanile». Giralucci ha scelto di raccontare quegli anni «come un quadro cubista», senza provare a comporre le tante versioni inconciliabili. A tratteggiarli, solo la voce dei singoli: tra gli altri, il professor Guido Petter (morto l’anno scorso), ex partigiano, amico dei contestatori del 68 e bersaglio di quelli del 77; la studentessa un po’ selvatica che interrompeva le sue lezioni per irriderlo e processarlo. Il controverso giudice Pietro Calogero, artefice del processo 7 aprile; l’ex autonomo espatriato e spezzato dall’eroina a Parigi. Voci isolate e grandi silenzi. Quelli dei tanti ex militanti di Autonomia operaia che le hanno chiuso la porta in faccia. La reticenza orgogliosa della madre, scippata di una storia da raccontare. E infine le parole sottovoce, le mezze frasi della sua infanzia, dove a parlare dell’assenza di papà Graziano erano gli oggetti: il pallone da rugby delle trasferte gloriose, la vecchia Dyane, la scatola di legno verde in cui mamma Bruna conservava i ritagli dei giornali...
C’è anche la targa che commemora quei due omicidi. Il film parte da lì.
È rimasta per anni attaccata a un palo: i condomini di via Zabardella non la volevano. L’anno scorso, dopo aver presentato il libro in un liceo, mi si è avvicinata una professoressa di storia. «Abito lì», mi ha rivelato, «e posso dirle che il nostro rifiuto non aveva ragioni politiche ma umane. Era la nostra casa, capisce? Perché dovevamo sentirci addosso il peso di una fatto così grosso?». Ho provato a farle notare che un pregiudizio ci doveva essere: «Ormai c’è, ma resta avvitata», mi ha liquidato. «Per attaccarla al muro è ancora presto».
S’è data una spiegazione?
Mi sono fatta l’idea che i fascisti negli anni Settanta fossero come gli immigrati oggi: se affonda un barcone con trecento di loro è meno grave che se cola a picco una nave di italiani. «Tuo papà era morto ed era come se la nostra fosse la casa dell’assassino», si è lasciata sfuggire mia madre tempo fa.
Per anni le commemorazioni di suo padre erano praticamente adunate fasciste.
Quelle cerimonie, il grido «Camerata, presente!» e le braccia tese mi hanno sempre molto turbata, un anno ci ho portato anche mio figlio, che è scoppiato in lacrime. La memoria di una parte ha trasformato questi due morti in un simbolo. Grazie al cielo da qualche anno, accanto alle cerimonie politiche, ci sono quelle istituzionali, è lì che avrei preferito stare, fin dall’inizio.
C’è voluto parecchio perché accadesse.
Ricordo solo silenzi. Mia cugina ha capito che cosa fosse accaduto allo zio solo quando si è iscritta a Giurisprudenza e si è letta gli atti del processo. Di quell’epoca conserva il ricordo di sua madre e della nonna che piangono sulle scale, per non farsi vedere da nessuno. Sapevamo che c’erano delle indagini in corso, ma la sentenza definitiva è arrivata che io ero all’università.
«Avevo una vaga paura degli uomini coi capelli lunghi, delle manifestazioni, delle scritte sui muri», racconta la sua voce sui titoli di testa del film...
Non certo per un senso di appartenenza politica: a parte mio padre, la mia famiglia non è mai stata di destra. Quel sentimento di paura l’ho riconosciuto poi in tanti miei coetanei: figli di poliziotti, di dirigenti politici, di professori. Tutti i bambini che in quegli anni si trovavano in mezzo e a cui non venivano date spiegazioni.
Cosa ricorda della sua infanzia?
Le donne: mia mamma, che era casalinga, si è trovata un lavoro, ha preso la patente e con la tenda di mio padre mi ha portato in giro per mezza Europa. Mia nonna, che si è presa cura di me quando mamma lavorava, e poi mia zia.
Donne toste, insomma.
Credo che la mia determinazione venga da lì. Non posso definirla un’infanzia triste, solo, ora che ho una famiglia mia, capisco che cosa mi sono persa.
S’è trovata a tre anni al centro di una tragedia nazionale...
L’ho capito tardi. Quando è iniziato il processo. Leggevo i giornali sotto il banco pensando che nessuno sapesse.
E invece?
Un’ex compagna mi ha chiesto: «Silvia, stai bene?». Sapevano tutti. C’era stato pure un volantinaggio davanti a scuola. Tra le biciclette, ho trovato un volantino. Si erano messi d’accordo per nascondermeli: ho capito che il mio dolore era di dominio pubblico, mi sono sentita spezzata.
Fa ancora male?
Mi riesce più facile parlare con gli estranei che con gli amici. Se qualcuno mi chiede a che cosa sto lavorando, rispondo: un documentario sugli anni Settanta.
Non lo è, dunque?
Cerco di recuperare una memoria componendo punti di vista diversi. Ma il film non parla di mio padre. Che titolo ho per raccontare una persona di cui non ho ricordi?
Ha trovato qualcuno più titolato di lei?
Un’ex militante come lui, avevano passato gli ultimi mesi della sua vita insieme. Le ho telefonato presentandomi: «Ma tu… sei la bambina?», mi ha chiesto. È stato l’incontro più bello: ora è una donna matura, una madre, vicina al mio modo di sentire.
Molte delle persone che ha cercato sono rimaste intrappolate in quegli anni.
Hanno chiuso tutto in un cassetto senza rielaborare. Su entrambi i fronti. Penso con tristezza a Pietro Calogero: è una persona molto intelligente, ma quando parla del 7 aprile è ancora fisso lì.
Lo descrive come un tenente Colombo un po’ trasognato.
La sua è stata la prima inchiesta che ha portato qualche risultato nell’ambito del terrorismo di sinistra. Era l’anno dopo il sequestro Moro, lo Stato era in scacco e non c’era nessuna pista, troppa omertà. So che se n’è dispiaciuto, ma penso che il suo lavoro sia stato in parte quello di storico.
In che senso?
Sono state usate come testimonianze delle narrazioni: è un po’ come dare ragione ai suoi detrattori e dire che il processo si fondava su un teorema.
Tra le testimonianze che avrebbe voluto nel film c’era quella di Toni Negri.
L’ho cercato tante volte, attraverso colleghi a cui ha ingiunto di non darmi il suo numero di telefono. L’ho incontrato per caso su un treno e mi sono presentata. «So chi è lei», mi ha risposto, «e ho letto il suo libro, perché me lo hanno dato».
Sottinteso: io non l’avrei mai comprato.
Ha ribadito che non voleva parlare di quelle cose, non con me, almeno. Quando gli ho annunciato che avevo ripreso il suo intervento al trentennale del 7 aprile e lo avrei messo nel film, ha risposto seccamente: «Lo troverei molto scorretto».
Lo ha messo lo stesso?
Era un convegno pubblico.
A proposito di cattivi maestri...
Alcuni sono cambiati. È giusto farsi carico delle proprie responsabilità, ma non si può inchiodare per sempre le persone a fatti commessi a vent’anni.
Ha gli stessi sentimenti anche nei confronti dei responsabili dell’omicidio di suo padre?
La maggior parte ha scontato la pena, sono fuori. Purtroppo alcuni non hanno mostrato d’aver compreso la gravità delle proprie azioni.
A chi si riferisce?
Susanna Ronconi, che ha accettato di fare la consulente ministeriale. Lavoro come volontaria coi detenuti, a loro dico sempre: una volta fuori, rifatevi una vita, non andare a casa delle vittime a fare altro male. Esporsi mediaticamente è come tornare a casa delle proprie vittime.
Come la grazia a Renato Curcio, accusato, con Franceschini e Moretti, di responsabilità morale nell’assassinio di suo padre? Allora scrisse al presidente Cossiga.
Avevo vent’anni, ora userei parole diverse, ma quella fu un’offesa istituzionale grave: il processo non si era ancora concluso.
Ora lo è.
Ed è stata una liberazione, soprattutto per mia madre. Ricordo che eravamo sedute in tribunale, lei si è girata e mi ha detto, piangendo: «È là in fondo, Silvia, appoggiato alla porta, sta sorridendo». Deve aver finalmente sentito che papà poteva riposare in pace. Non è lo stesso per i parenti delle vittime delle stragi impunite d’Italia. Manlio Milani, presidente dell’associazione piazza della Loggia lo ripete spesso: la sua Livia non riposa in pace.
È in contatto con altri parenti di vittime?
Milani è stato quasi un padre per me e per la mia amica Benedetta Tobagi, a suo modo anche per Mario Calabresi, Marco Alessandrini e Agnese Moro.
Di che parlate, quando vi incontrate?
Di cose che solo noi ex bambini del terrorismo possiamo capire.
Per esempio?
Storie di convivenza con madri sole, tentativi di far fuggire i fidanzati in carica, cose così.
E suo padre, l’ha ritrovato?
Quando passo davanti a quella targa appesa al muro lo saluto, l’idea mi piace.
Come se lo immagina?
Aveva 29 anni. Dicono fosse un gran bel ragazzo, occhi chiari, esuberante.