Ferruccio Pinotti, Sette 31/8/2012, 31 agosto 2012
TARANTO, DAL PORTO ARRIVA LA SPERANZA
Un business da 400 milioni di euro, che fa gola a tanti. Ma anche un’opportunità di rilancio per la martoriata Taranto, una città baciata da un mare splendido, ma condannata a perseguire a tutti i costi una vocazione industriale che produce posti di lavoro, così come cancro e morte. L’alternativa all’Ilva si chiama porto, una realtà che non solo è la terza in Italia per volume di scambi, con oltre 40 milioni di tonnellate di merci movimentate e container nel 2011 pari a 600.000 Teu (Twenty-foot equivalent unit), ma che può diventare un gigantesco polo di attrazione per gli scambi da tutto il Mediterraneo e soprattutto dal Far East. Come per l’Ilva, anche in questo caso la scelta è drammatica: rinascere o morire; rilanciare e scommettere sul futuro del porto, o lasciarlo andare al proprio destino, fatto di lavoratori in cassa integrazione (500) e di sversamenti di combustibile da parte delle carrette del mare.
Un crinale pericoloso. Il porto di Taranto si muove su questo pericoloso crinale: infatti, i due giganti asiatici del trasporto marittimo, la taiwanese Evergreen Maritime Corporation e la cinese Hutchison Whampoa, che controllano al novanta per cento (e il restante 10% è collegato a loro) la società terminalistica dello scalo pugliese (la Taranto Container Terminal), dopo aver creduto e investito nel porto di Taranto, si sono irritati per le opere promesse e mai realizzate dal governo Berlusconi. Le due società, che gestiscono navi lunghe anche 300 metri con 16.000 container a bordo ciascuna, hanno spostato il 70% dei loro traffici al porto del Pireo, ormai interamente in mano ai capitali cinesi. Ne è derivata una pesante crisi, che ha portato all’attuale cassa integrazione di 500 lavoratori sui 600 totali.
Eppure, le potenzialità sono enormi: il porto di Taranto è il terminale europeo più vicino al Canale di Suez, attraverso cui transitano tutte le merci provenienti da Cina e Far East. Taranto offre poi maggiori garanzie di stabilità politiche di Tunisi ed è meglio collegato al Nord Europa rispetto al Pireo.
Perché allora gli operatori asiatici – essenziali per un “hub” con ambizioni internazionali – hanno dato un segnale così pesante a Taranto? Cosa significa?
Da Taranto al Pireo. «Nell’agosto 2011 il vettore Evergreen ha trasferito al Pireo gran parte delle sue linee, lamentando il mancato adeguamento del terminal di Taranto, il fatto che non è stato effettuato il dragaggio dei fondali necessario all’attracco di grandi navi, la mancata costruzione della diga foranea (lo stabilizzatore dei flussi marini da porre davanti al porto, ndr), il mancato potenziamento del raccordo ferroviario con il Nord e il rallentamento dei lavori per la costruzione della piastra logistica integrata, iniziati nel 2003», spiega il presidente dell’Autorità portuale, il professor Sergio Prete, docente universitario di Diritto della navigazione. «Anche Hutchison Whampoa aveva deciso di non investire più in Taranto e la situazione si era fatta critica». Di fronte a questa crisi, il governo Monti ha reagito e nel febbraio 2012 ha conferito all’avvocato Prete anche la qualifica di Commissario Straordinario, con poteri di controllo e sostitutivi.
Poi, il 20 giugno 2012, una scelta forte: la firma di un piano per il rilancio del traffico portuale di Taranto (siglato da governo, Autorità portuale, ministeri dei Trasporti, Coesione, Ambiente, Regione Puglia, Provincia, Comune, Fs e Trenitalia, Sogesid e privati, asiatici inclusi) che stanzia 187 milioni di euro al fine di rendere il porto un hub davvero efficiente e attrattivo. Altri 219 milioni verranno dal piano di investimenti nella piastra logistica: in totale oltre 400 milioni per il rilancio del porto.
«Ottanta milioni di euro saranno investiti dagli operatori privati: Hutchison Whampoa ed Evergreen si sono impegnate all’acquisto di nuove gru e di locomotori per il traffico container su ferrovia. Ma soprattutto si sono impegnati a portare un milione di container l’anno a partire dal secondo anno di lavori, quindi dal 2014. Un segnale di fiducia forte, che premia l’azione di rilancio», spiega il presidente del Porto.
Il Porto di Taranto ha siglato intanto due accordi strategici importanti: uno con l’ente di pianificazione e gestione portuale di Shanghai (l’International Shipment Institute) e un altro con il Porto di Rotterdam (19 aprile 2012), che ha scelto Taranto quale partner strategico per il Sud Europa, dando vita a una joint venture per l’inserimento di Taranto nel network di Rotterdam. È poi in vista un accordo con Shenzhen e altre intese con porti stranieri.
I segnali positivi ci sono, ma non bastano. «I cinesi vogliono un quadro chiaro e preciso dei progetti in essere, siamo sotto osservazione. È essenziale realizzare rapidamente le opere richieste dagli operatori asiatici», spiega il professor Prete.
I nodi da risolvere. C’è poi il problema del collegamento alla rotaia e della ferrovia Taranto-Bologna, da adeguare. Un economista, il professor Antonio Borghesi, fondatore del master in Logistica integrata all’Università di Verona, denuncia: «Da Taranto in su la linea ferroviaria non è mai stata ristrutturata. In galleria passano solo i carri con le vecchie sagome, quelli con i container di nuova generazione non transitano. Intere gallerie sono da rifare e allargare».
I treni con sagoma ridotta sono inefficienti. «La rottura del carico ha costi pazzeschi. E ancora troppa merce viaggia su gomma; in Italia il 74% contro meno del 50% della media Ue. Il problema è che se l’Ue non si decide a emettere dei bond per finanziare le infrastrutture, gli Europroject bond, non ci sono soldi per la Taranto-Bologna. Gli unici fondi stanziati sono per la Torino-Lione e per l’asse del Brennero. Non ci sono altri finanziamenti europei», spiega Borghesi che parla a ragion veduta perché fa parte della Commissione Trasporti della Camera.
Sergio Prete ammette il problema: «Le gallerie del tratto Termoli-Lesina e di Cattolica sono troppo strette, fanno da collo di bottiglia alle merci. È un problema da affrontare urgentemente».
C’è poi il nodo del dragaggio dei fondali per permettere alle grandi navi cinesi di attraccare: un’operazione che al porto di La Spezia si è rivelata problematica e costosa (25 milioni di euro).
«Noi metteremo i fanghi di dragaggio in una vasca di colmata, con la quale realizzeremo una nuova banchina, il cosiddetto quinto sporgente del porto: in pratica un nuovo terminal per i container», annuncia il presidente dell’Autorità portuale.
Il peso dell’Ilva. Un’altra ardua sfida è ridurre il peso dell’Ilva quale cliente principale del porto: oltre il 70% delle merci movimentate (materiali ferrosi in arrivo, lamiere di acciaio in partenza) fa capo al colosso siderurgico. «L’Ilva per ora è un cliente chiave e va salvata, dopo averla messa a norma; ma il nostro modello è il porto di Rotterdam, con i suoi 11 milioni di container l’anno e traffici che spaziano dall’industria al petrolio, dalle auto a ogni tipo di merce».
La crisi intanto morde e nei primi sei mesi del 2012 c’è stato un calo del 7% nel movimento dei container. E 500 lavoratori, dopo la fuga dei cinesi, sono in cassa integrazione. Il segretario della Cgil di Taranto, Luigi D’Isabella, rivendica: «Abbiamo evitato il licenziamento di 160 lavoratori» e «limitato i danni provocati dallo spostamento delle merci da Taranto al Pireo». D’Isabella parla di «contrasti tra i cinesi di Hutchison Whampoa e i taiwanesi di Evergreen, mascherati dietro a ingiuste accuse di assenteismo. Il confronto coi cinesi è serrato, loro vogliono infrastrutture e investimenti precisi, a fronte dei quali sono però pronti a investire a loro volta», prosegue il sindacalista.
«Per fortuna Rotterdam ha scelto Taranto come partner: se chiude l’Ilva il 70% del traffico va a farsi benedire», ammonisce il leader della Cgil tarantina. Il sindacato veglia anche sul tema dei traffici illeciti (al porto è arrivato tempo fa anche uno strano carico di materiale militare e piovono prodotti cinesi contraffatti) ma anche sugli appetiti della mafia rispetto a un investimento complessivo di 400 milioni di euro: «Abbiamo siglato un protocollo di legalità in prefettura, ma bisogna tenere alta la guardia», conclude il segretario della Cgil.
Il vicepresidente di Confindustria di Taranto e di Assologistica, nonché direttore di Taranto Container Terminal, Giancarlo Russo, ammonisce: «La cassa integrazione dei 500 lavoratori durerà 24 mesi, sino al 27 maggio 2014. Di qui ad allora il porto deve dotarsi di infrastrutture adeguate per accogliere il ritorno degli operatori asiatici. È importante che venga anche realizzata una piastra logistica per la lavorazione e la trasformazione delle merci trasportate. Il Piano regolatore portuale va realizzato in fretta: i porti del Nord Africa sono famelici e lavorano a basso costo, la concorrenza è durissima».
Il numero due di Confindustria vede per il porto anche una vocazione turistica: «Il nostro Mar Piccolo (Taranto si affaccia su due bacini, il Mar Grande e il Mar Piccolo, ndr) è fantastico, bisogna sviluppare la vocazione diportistica di Taranto e sdemanializzare le aree militari ancora presenti. Ma il sistema pubblico pugliese è ancora troppo lento».
I dubbi degli ambientalisti. A smorzare gli eccessi di entusiasmo sul futuro del porto è anche il mondo degli ecologisti. Il presidente dell’associazione ambientalista Peacelink, Alessandro Marescotti, mette in guardia: «Il dragaggio dei fondali per consentire alle grandi navi asiatiche di attraccare non è semplice come sembra. Sui fondali sono depositati fanghi altamente inquinanti, frutto degli sversamenti dell’Ilva, di Cementir, dell’Eni. Si tratta quindi di sedimenti fortemente inquinanti, che vanno rimossi con attenzione. Non possono essere utilizzati per costruire una nuova banchina, perché cedono metalli pesanti all’ambiente circostante. Sono rifiuti speciali». Errori già compiuti, secondo Marescotti: «Le colmate utilizzate per realizzare il molo polisettoriale sono bombe ecologiche, materiali di scarto degli altiforni. Anche il fondo del Mar Piccolo è pieno di diossina e Pcb, sostanze pericolose da rimuovere».
Secondo il leader di Peacelink, poi, «il porto non è ben connesso con la ferrovia e l’autostrada si ferma a Massafra: limiti forti allo sviluppo». Per creare vera occupazione, «bisognerebbe puntare sulla retroportualità più che sullo sbarco dei container: movimentare cassoni genera pochi posti di lavoro, bisogna puntare sulla trasformazione delle materie prime, creando al porto un’area no-tax nella quale convenga insediare imprese di lavorazione, com’è avvenuto in altre aree industriali riconvertite, quali Pittsburgh e la Ruhr».
Un’idea interessante, ma c’è un ostacolo, secondo Marescotti: «La Cementir (gruppo Caltagirone, ndr) vuole espandersi, ha bisogno di aree che, se occupate, impedirebbero lo sviluppo della retroportualità. Quindi esiste un conflitto fra tradizionale industria pesante e nuove attività a maggior valore aggiunto: le uniche in grado di sviluppare occupazione duratura».
Cinquantamila posti di lavoro. Nonostante queste ipoteche, il sindaco di Taranto, Ippazio Stefàno (Pd), mostra ottimismo: «Sul porto di Taranto si riverserà un investimento complessivo di 400 milioni di euro: ne deriverà un hub di interesse europeo. Saremo la porta d’ingresso per l’Europa, il punto di riferimento per Egitto, Libia, Algeria, il riferimento per la Primavera araba. Entro due anni i lavori previsti saranno consegnati, i bandi d’appalto sono già partiti. Il porto è stato molto trascurato dal governo Berlusconi, ma i nuovi investimenti lo rilanceranno. Credo che in futuro – così come Rotterdam occupa 150.000 addetti – il porto di Taranto potrà dare lavoro a 50.000 persone. E l’Ilva, che deve continuare a vivere, sarà solo uno dei clienti».
Dalla Cina con amore. A crederci è anche Francesco Sisci, economista tarantino già direttore dell’Istituto italiano di cultura di Pechino dal 2003 al 2005 (e primo straniero ammesso alla Scuola superiore dell’Accademia cinese delle scienze sociali di Pechino), che spiega: «I taiwanesi di Evergreen sono stati i primi a credere in Taranto, alla fine degli anni Novanta. Questo perché Taranto è il porto continentale più vicino a Suez. Se si sapranno realizzare opere audaci, come una quinta grande banchina, la crescita dei traffici è sicura. Taranto ha poi una grande area retroportuale da sfruttare, al contrario di Genova, Trieste e Gioia Tauro, porti limitati da condizioni territoriali meno favorevoli. È il porto ideale per le merci dall’Asia: le navi asiatiche che passano da Suez possono scaricare le merci a Taranto e farle arrivare in un giorno ad Amburgo».
Mancano tuttavia, lamenta Sisci, «trenta chilometri di autostrada fino al porto e tre di ferrovia. Bisogna poi realizzare il dragaggio dei fondali per almeno due metri e costruire le dighe foranee. Di qui la delusione cinese. Ora abbiamo due anni per colmare gli enormi ritardi accumulati dai governi precedenti: o gli investimenti cinesi si sposteranno altrove. L’Italia deve rimboccarsi le maniche, Taranto ha potenzialità pari a quelle di Rotterdam, se non maggiori. L’Ilva, anche se risanata sul piano ambientale, non risolve i problemi di Taranto e del Meridione».
La sfida del porto di Taranto è iniziata: speriamo che venga vinta.