Stefano Vergine, l’Espresso 31/8/2012, 31 agosto 2012
BUSINESS ACCIAIO
Costi dell’energia esorbitanti. Manodopera cara. Norme ambientali da rispettare (almeno in teoria). Sommando il tutto, la domanda sorge spontanea. Conviene ancora tenere le fonderie in Italia? Non sarebbe meglio, per evitare situazioni come quella dell’Ilva di Taranto, spostare all’estero gli impianti di produzione e mantenere nella Penisola le sole lavorazioni finali? Pur escludendo la questione morale (delocalizzare non significa certo smettere di inquinare), gli esperti dicono di no. Secondo Carlo Mapelli, docente di Metallurgia al Politecnico di Milano, «la nostra industria siderurgica è una delle più efficienti al mondo. E poi l’acciaio è la materia basilare per la manifattura: smettere di produrlo significa finire sotto ricatto». Aggiunge Enrico Gibellieri, direttore dello Steelmaster e ultimo presidente della Ceca, la Comunità europea del carbone dell’acciaio: «La redditività di questo business non è in dubbio, basti pensare agli straordinari utili registrati dalle nostre aziende fino all’inizio della crisi. La manodopera rappresenta meno di un decimo dei costi, quindi non è un problema. È vero che l’energia da noi costa parecchio (in Italia l’elettricità è la più cara al mondo, secondo una recente ricerca di Nus Consulting, ndr). E in effetti l’acciaio fatto in India o in Cina può essere più conveniente. Ma produrre in casa significa avere approvvigionamenti sicuri per l’industria».
Oggi la siderurgia italiana fattura circa 40 miliardi di euro all’anno e dà lavoro direttamente a quasi 37mila persone. Perché oltre ai Riva ci sono altri imprenditori: da Rocca a Marcegaglia, da Amenduni a Pasini, da Arvedi a Danieli. Certo, alcune grandi famiglie nel frattempo hanno cambiato business, primi fra tutti i Falck. E infatti negli anni Novanta i dipendenti del comparto erano circa 55mila. Ma allora la Cina non era ancora entrata nel commercio globale, mentre oggi Pechino è il primo produttore di acciaio al mondo. L’Italia resta tuttavia seconda in Europa dopo la Germania e undicesima a livello internazionale.
Ma non è solo questione di quantità. «Insieme a quello giapponese», sottolinea Gibellieri, «l’acciaio europeo è di qualità superiore e, a parità di resistenza, permette ad esempio di realizzare veicoli più leggeri».
Quando si parla di acciaio bisogna fare una distinzione. Esistono due tipi di impianti: quelli a ciclo integrale
Ma di sistemi a ciclo integrale in Italia non c’è solo quello pugliese. Ne esistono altri due. Uno a Trieste e uno a Piombino. Entrambi molto più piccoli. Entrambi appartenenti un tempo alla famiglia bresciana Lucchini e ora controllati dal gruppo russo Severstal di Alexei Mordashov. Entrambi, come l’Ilva di Taranto, a rischio chiusura. La ex Lucchini registra infatti debiti per 800 milioni di euro e un rosso di 100 milioni. Di fatto è in mano alle banche creditrici, Intesa Sanpaolo in testa, e Mordashov si è detto disponibile a vendere in cambio di un euro simbolico. «Temo che alla fine entrambi saranno costretti a chiudere», dice il manager di un grande gruppo siderurgico italiano: «sono impianti piccoli, nel caso di Piombino particolarmente inefficienti, e poi in un momento di crisi come questo è difficile trovare imprese pronte a investire".
Certamente i due stabilimenti vivono situazioni diverse. Piombino, con 2150 dipendenti diretti, è specializzata in acciai lunghi e può vantare la produzione delle rotaie dei treni. Gli impianti toscani sono però fermi da inizio agosto. «Il 5 settembre l’attività dovrebbe ripartire, ma qui si perdono 10 milioni al mese e tra un po’ le risorse finiranno», prevede Mirco Lami, della Fiom locale.
Come a Taranto, anche a Piombino c’era il problema del benzoapirene, sostanza cancerogena che può modificare il dna umano. La legge fissa il limite a un nanogrammo per metrocubo: nel 2004 l’Arpa ne rilevò ben oltre nove. «A quel punto», racconta Adriano Bruschi, di Legambiente Piombino, «il sindaco, Gianni Anselmi, con il sostegno di sindacati e cittadini, ordinò la chiusura di una parte della cokeria». Il problema inquinamento fu così risolto.
Sembra invece una miniatura di Taranto la ferriera di Trieste, oltre 400 dipendenti impegnati a fondere ghisa, prodotto che si differenzia dall’acciaio per la maggior percentuale di carbonio presente. Anche qui le case sorgono a meno di cento metri dagli impianti. E anche qui i livelli di inquinamento preoccupano. Per Alda Sanzin, del Comitato no smog di Servola, «da gennaio a maggio il livello di benzoapirene ha già superato il massimo annuale; ci sono stati 70 sforamenti rispetto ai 35 consentiti, e le diossine non vengono nemmeno misurate costantemente». La Procura sta indagando
Di certo acciaierie del genere esistono pure all’estero. A Duisburg, in Germania, ThyssenKrupp gestisce due impianti a ciclo integrale che insieme formano la più grande acciaieria d’Europa. Problemi? «Nessuno», dice Gibellieri: «c’è sempre stata collaborazione tra azienda, sindacati, governo ed enti controllori».