Gigi Riva, l’Espresso 31/8/2012, 31 agosto 2012
PERCHÉ NESSUNO TOCCA LA SIRIA
I numeri: tra i 25 e i 32 mila morti in Siria secondo le fonti più attendibili, tra cui le Nazioni Unite, dal 15 marzo 2011, inizio della guerra, ad oggi. Di queste, la metà sono civili e 1.900 partecipavano a manifestazioni di piazza. Un milione e mezzo i profughi all’interno del Paese; 150 mila quelli espatriati. Decine di migliaia le persone finite in carcere dove sono stati documentati numerosi casi di tortura. Giorno più cruento, il 25 agosto scorso: 400 vittime per i bombardamenti dell’aviazione che il presidente Bashar al-Assad ha ordinato sui quartieri periferici di Damasco, Aleppo e Daraya, roccaforti dei ribelli. Si traccia, spesso, il paragone con la Libia dove era stato versato molto meno sangue prima che si decidesse di intervenire. Perché era giusto per Tripoli ciò che per Damasco, dopo 18 mesi, ancora non sembra utile? C’è una risposta vera ma spicciola: Muammar Gheddafi era isolato e regnava su una terra non strategica per i destini del pianeta; al contrario la Siria è decisiva per gli equilibri della regione più delicata del mondo e va maneggiata con cura. C’è, poi, una risposta più lunga e articolata, che discende dalla prima e chiama in causa gli interessi degli altri paesi dell’area e degli attori protagonisti della scena internazionale. Che qui analizziamo.
STATI UNITI - La Siria faceva parte, per l’amministrazione Bush, dell’ "asse del male". L’ambasciata era stata chiusa, le relazioni diplomatiche congelate. Barack Obama l’ha riaperta (sino allo scorso febbraio) per cercare un nuovo approccio al mondo arabo dopo il disastro iracheno (e quello afgano). Ha ritirato da poco le truppe da Baghdad, si appresta a farlo da Kabul. Non vuole altre avventure belliche per motivi di bilancio, di elezioni e di credo personale. Nella campagna di Libia era stato trascinato dal decisionismo di Sarkozy e dall’interventismo "umanitario" di tre donne: Hillary Clinton, segretario di Stato, Susan Rice, ambasciatore all’Onu e Samantha Power, sua assistente speciale. Il trio sarebbe propenso a un maggiore attivismo su Damasco per il quale mancano però i presupposti anche pratici. L’esercito di Bashar al-Assad è assai più forte e (per ora) più fedele di quello del rais di Tripoli e c’è il rischio di vedere rientrare bare con la bandiera americana in prossimità del voto: ipotesi da scongiurare pena la perdita di consenso. La lunga assenza dal Paese comporta anche un deficit di conoscenza dell’intelligence e a Washington non sono così sicuri del profilo dei leader sunniti dell’opposizione. Temono una deriva islamista. Infine è stato un freno anche l’attendismo di Israele, l’alleato irrinunciabile nonostante le recenti incomprensioni, colto di sorpresa e spaventato dalle "primavere arabe" che si sono susseguite ai suoi confini. La linea rossa che sinora Obama ha tracciato riguarda l’uso delle armi chimiche e batteriologiche che Assad si è affrettato a smentire. Unico aiuto alla resistenza: la presenza di uomini della Cia sul terreno come consiglieri militari e 25 milioni di dollari. Senza gli Usa, si sa, le guerre non si combattono.
ISRAELE - Per un lungo tempo il premier Bibi Netanyahu ha temuto, soprattutto, che Bashar Assad potesse essere rovesciato. Il presidente è il "male conosciuto" dunque affrontabile, il resto è l’ignoto e di incognite il paese ne ha fin troppe ai suoi confini (compreso l’enigma Egitto). E con Assad, quando lo si credeva un leader giovane, aperto e dialogante, si era persino tentato di avviare un processo che portasse dalla "guerra fredda" a una "pace fredda". Di più, impossibile attendersi. La repressione feroce e i calcoli sui rapporti costi-benefici sono mutati. Adesso a Gerusalemme valutano che una caduta del regime spezzerebbe il legame che unisce Damasco all’Iran degli ayatollah e della temuta bomba, lo spauracchio supremo. Ma Israele, a un eventuale intervento, potrebbe fornire solo un appoggio morale. Ha soldati e mezzi impegnati su troppi altri fronti.
RUSSIA - In un rigurgito di "Guerra fredda" post litteram , Mosca cerca di rientrare, dopo essere stata chiusa a lungo per restauri interni, nel grande gioco Mediorientale. Con la Siria esiste un’amicizia storica che si consolida con il voto contrario all’Onu su qualunque Risoluzione la riguardi. Putin difende contemporaneamente i propri interessi economici (11,4 miliardi di dollari incassati in fornitura di armi a Damasco nel 2011) e geostrategici: nel porto di Tartus c’è l’unica base navale militare russa fuori dai confini, il solito sogno dello sbocco al mare caldo, il Mediterraneo. Navi da guerra e sommergibili attraccano per "soste tecniche", versione del Cremlino, per portare aiuti militari al regime secondo i sospettosi insorti.
CINA - Anche la Cina, come la Russia, si è sempre schierata al Palazzo di Vetro a fianco di Assad. E come la Russia perché da sempre contraria a interventi che interferiscano con le dinamiche politiche interne dei vari Stati. Teme che un esempio possa fare scuola e, domani, riguardare, magari le sua repressioni domestiche. Inoltre la Siria si è sempre schierata con Pechino su Tibet, Taiwan e diritti umani. Infine è il terzo paese importatore dalla Siria con contratti del valore di oltre due miliardi di dollari. La compagnia petrolifera China National Petroleum Corporation (CNPC) è in joint venture con la Compagnia nazionale petrolifera della Siria.
EUROPA - Al solito ininfluente, almeno dal punto di vista bellico. Qualche soldato inglese sul terreno a dar man forte agli insorti, sicuramente uomini dell’intelligence, alcuni mercenari. Le casse del Vecchio Continente sono vuote, gli arsenali quasi esauriti dal conflitto libico. E fare la guerra, oltre ad essere impopolare nell’Europa della pace perpetua kantiana, costa. Il nostro ministro degli Esteri Giulio Terzi dice ogni giorno che Assad se ne deve andare. Offre aiuti militari e mediazione politica. Stop. Hollande sta sulla linea Obama: intervento se vengono usate armi chimiche. Se (e speriamo di no).
PAESI VICINI - La Turchia aveva cercato di far rientrare la Siria a pieno titolo nel consesso delle nazioni e il premier Erdogan aveva lanciato un piano per colonizzarla economicamente con le sue industrie. Tutto svanito a causa della ferocia di Assad, dell’abbattimento di un aereo di Ankara da parte di Damasco, del timore di una crisi umanitaria ai confini e di un riaprirsi della questione curda se quell’etnia avrà più diritti in Siria. Contro il regime anche l’Arabia Saudita e il solito Qatar che danno corposi aiuti economici all’Esercito di liberazione: solidarietà sunnita contro un regime espressione della minoranza alauita. Ma la regione è in pieno movimento e i vecchi schemi di alleanze rischiano di mutare nel breve termine. La Siria è il banco di prova per un nuovo ruolo che l’Egitto del "Fratello musulmano" sunnita Mohammed Morsi vuole ritagliarsi, tanto da volare aTeheran, nella tana del nemico sciita, per il vertice dei Paesi non allineati e trovare un accordo proprio sulla Siria sinora protetta dagli ayatollah. Egitto, Iran, Turchia e Arabia Saudita sarebbe l’eteregeneo quartetto di mediatori sorto sulle ceneri delle fiamme di Damasco. Un inedito assoluto. Difficile che funzioni.