Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2012  agosto 31 Venerdì calendario

E DOPO OBAMA OBAMA

[Colloquio Con Katrina Vanden Heuvel] –
Il presidente che le piacerebbe è attento ai bisogni di tutti, a cominciare dai meno fortunati. Regolamenta i settori che hanno innescato la crisi, a cominciare dalla finanza. E poi guarda al mondo con occhi curiosi e non mostra i muscoli appena le cose non vanno. Senza mai scordarsi dei diritti individuali, siano essi dei gay, delle donne, degli immigrati. Ecco il presidente ideale per Katrina Vanden Heuvel, 52 anni, signora dall’aria dolce e dallo sguardo deciso, imprenditrice e intellettuale, in quanto editore e al tempo stesso direttore di "The Nation", settimanale democratico con molto accentuate venature liberal.
Ma quel presidente esiste solo nei sogni e allora Katrina Vanden Heuvel deve giocoforza parlare di quello che oggi è alla Casa Bianca, Barack Obama, e del suo sfidante repubblicano. Disegna così, nel corso di un colloquio nel suo ufficio a "The Nation", l’America che vorrebbe, quella che c’è e quella che non le piace.
Katrina, chi è Barack Obama dopo oltre tre anni alla Casa Bianca?
«Oggi è un uomo e un presidente molto pragmatico. Il candidato pieno di ideali del 2008 è cambiato proprio per gli anni trascorsi a Washington. Però, negli ultimi mesi ha tirato fuori un’anima da combattente, visto come si sta comportando nella campagna delle presidenziali 2012. Barack Obama resta un uomo istintivamente progressista, ma ancorato al centro come lo sono gran parte dei politici della sua generazione. Lui ha 51 anni ed è cresciuto in un’era dove il centrismo ha sempre prevalso».
L’anima politica corrisponde alla generazione di cui si fa parte?
«Certo, per ragioni anagrafiche Obama non fa parte della generazione del Vietnam e neanche in quella New Deal. Però, pur restando un pragmatico, ha capito che è tempo di comportarsi come un combattente perché ha di fronte un partito Repubblicano unito come mai lo è stato nella sua storia nel dire no e nel bloccare ogni legge voluta dal presidente. Oggi il rapporto che si instaura tra un presidente e il Congresso è quello che racconta lo stato della politica americana. E oggi quel rapporto vede la maggioranza del Congresso contro il presidente».
Barack Obama è arrivato alla Casa Bianca nel pieno di una crisi economica, la peggiore dopo il grande crack del 1929. Quali sono state le scelte giuste e quelle sbagliate?
«Comincio dagli errori. Il più grande è stato nei confronti della banche che oggi sono potenti e concentrate. Le ha aiutate perché non fallissero e non ha chiesto nulla in cambio. Se io ti aiuto a non morire, almeno voglio che tu non faccia azione di lobbying contro le riforme che servono a evitare una crisi futura. Forse avevano ragione gli economisti Joseph Stiglitz e Robert Reich a dire che bisognava lasciare le banche al loro destino. Il secondo errore del presidente è stato sottovalutare la portata della crisi e non mettere in campo un’azione di stimolo ancora più grande dei 787 miliardi di dollari investiti. Se avesse ragionato fin dall’inizio sul modo in cui il capitalismo andava riformato, forse non saremmo a questo punto».
Questi gli errori. E le scelte giuste?
«Obama è andato nella giusta direzione su temi come i diritti dei gay e il matrimonio, lo status degli immigrati clandestini, il diritto delle donne a salvaguardare il loro corpo e la salute. E poi è stato dalla parte giusta della storia quando ha aiutato a combattere la povertà di questo paese indirizzando una larga parte del denaro dello stimolo fiscale in quella direzione. Non si vedeva un’azione di questo tipo dai tempi della Grande Società di Lyndon Johnson».
Obama è arrivato mentre erano in corso due guerre e i popoli di molte nazioni vedevano gli Stati Uniti come il diavolo. Qual è il suo giudizio sulla sua azione all’estero?
«Credo abbia avuto risultati contrastanti. Ha fatto bene a uscire subito dall’Iraq, è troppo lento nel ritiro dall’Afghanistan. È positivo che alla Casa Bianca non si usi più la frase "Guerra al terrore", però è ormai in corso una nuova guerra in vari luoghi sotto il nome di contro terrorismo, utilizzando i droni e le loro bombe, molti più affari di Stato vengono classificati come segreti e tante sono le indagini sulle fughe di notizie. È come se l’ingresso alla Casa Bianca renda necessario ai presidenti presentarsi come uomini duri, macho men a stelle e strisce. Su questo aspetto Obama ha ricevuto poche critiche dal mondo liberal forse perché viene dal mondo democratico».
Lei sostiene che se un presidente americano non ha la sua guerra non è credibile?
«Fino a quando questo Paese non troverà un modo diverso di affrontare le crisi internazionali senza ricorrere a soldati, droni o detenzione indefinita di presunti terroristi, avremo presidenti che sono portati a mostrare i muscoli. In America il concetto di sicurezza è affrontato ancora in modo primitivo, mentre se rivolgo lo sguardo all’Europa vedo che lo si affronta in modo più umano. Non bisogna comunque dimenticare che esiste un Partito Repubblicano che vorrebbe bombardare domani mattina l’Iran, che parla ancora di pericolo dell’Islam, che vorrebbe un budget della difesa sempre più grande».
Obama, come tutti i presidenti che lo hanno preceduto, non è riuscito a portare la pace tra israeliani e palestinesi…
«Credo che la principale ragione del fallimento, e non per giustificare Obama, sia che in Israele il potere è nelle mani dell’ala destra».
Un po’ semplicistico, non le sembra?
«È una delle spiegazioni. Potrei anche dire che negli Stati Uniti a bloccare ogni passo in direzione della pace ha contribuito la saldatura che ormai c’è tra la destra evangelica e l’ala più conservatrice degli ebrei americani. A Obama è mancato un ruolo da leader nel confrontarsi con queste spinte negative».
Adesso la sfida viene dal ticket Mitt Romney-Paul Ryan. Come giudica la campagna di Obama contro gli sfidanti repubblicani?
«Ha capito che deve combattere e lo sta facendo. Per esempio ha fatto bene a spendere tanti soldi in spot televisivi e annunci sui giornali per mettere in luce il fatto che Romney non è affidabile, che le persone perbene non possono avere fiducia in uno che per semplici calcoli politici un giorno si schiera da una parte e il giorno dopo dall’altra. Ma questa campagna presidenziale sarà ricordata per questioni chiave. Primo: il tentativo da parte repubblicana, soprattutto dei governatori, di limitare l’afflusso degli elettori attraverso le leggi sull’obbligo di documenti. Secondo: i soldi sono i veri padroni di questa campagna grazie alla sentenza della Corte Suprema che ha cancellato i vincoli al finanziamento. Terzo: il ruolo negativo dei media che invece di dire dove sta il vero e il falso, hanno scelto la linea di una falsa equivalenza dei candidati».
Che sfidante è Mitt Romney?
«Anche se Romney nel passato ha fatto scelte positive come le riforma sanitaria in Massachusetts ed era a favore della scelta della donna nei casi di aborto, i circoli conservatori che contano hanno scelto Romney perché sanno che lui farà esattamente quello che vogliono nel campo della deregulation, del taglio delle tasse a partire dai più ricchi, della cancellazione di programmi di spesa governativi che a loro non piacciono. E proprio perché Romney non riscuote tanta fiducia nell’elettorato lo hanno convinto a scegliere come candidato vice presidente Paul Ryan che garantisce le scelte più conservatrici».
Nel 2008, il settimanale di cui lei è editore e direttrice appoggiò Obama con parecchi distinguo e precisazioni. Che scelta farà questa volta? E il 6 novembre lei voterà Obama?
«Questa volta più che un endorsement di Barack Obama, diremo quali sono i temi della campagna che appoggiamo con decisione. Questa scelta indica che siamo contro l’alternativa che si presenta nel momento del voto e della quale bisogna avere paura per i danni che potrà arrecare per generazioni».
Katrina, il suo è un endorsement e un voto che dice che il presidente uscente Barack Obama è la sola chance!
«Questa è l’America oggi».