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 2012  agosto 28 Martedì calendario

«HO FATTO COSE MOSTRUOSE. MA NON HO UCCISO»

Ci mancherebbe che non fosse il benvenuto un cortometraggio che racconta la tragica fine di un diciassettenne romano, Alessandro Caravillani, il quale alla mattina del 5 marzo 1982 si trovò sulla traiettoria delle pallottole sparate da un gruppo di terroristi neri contro le forze di polizia che li avevano intercettati all’uscita dell’Agenzia 2 della Bnl di piazza Irnerio che avevano appena rapinato di 90 milioni. Il cortometraggio porta la firma di Enzo De Camillis, cugino del ragazzo ucciso trent’anni fa, e s’è guadagnato il Nastro d’Argento come «migliore cortometraggio italiano 2012 per la qualità giornalistica». Pochi giorni fa è stato proiettato a Roma all’Isola del Cinema. Bene a un film che ricorda nome e cognome e circostanze della morte di una delle tante vittime dimenticate degli anni di piombo.
Le circostanze della morte. E qui la memoria deve essere tanto intensa quanto fedele nel raccontare il come e il chi, sapere trasmettere conoscenza e non odio o vendetta. Il chi in questo caso è Francesca Mambro, che alla mattina del 5 marzo aveva 23 anni, era molto carina e faceva parte del gruppo di Nar che tentarono di svaligiare la banca. De Camillis la mette al centro del racconto cinematografico, né poteva essere altrimenti da quanto lei è un personaggio massmediaticamente risonante. Epperò fa di più. Racconta che è stata lei a uccidere al modo di un’esecuzione il ragazzo che passava da piazza Irnerio. Nelle foto promozionali del cortometraggio ce n’è una che raffigura Francesca Carnelutti (l’attrice che impersona la Mambro) mentre punta la pistola come di chi sta dando il colpo di grazia. In un’intervista di qualche tempo fa, De Camillis ha sostenuto che la Mambro avesse visto il ragazzo caduto per terra, lo avesse preso per un agente in borghese e fosse tornata indietro a dargli il colpo di grazia. E laddove esiste una triplice sentenza ad asseverare che la pallottola che uccise Caravillani lo aveva incocciato di rimbalzo dopo essere partita da 7-15 metri di distanza da un fucile d’assalto adoperato nell’occasione da un altro dei Nar, Livio Lai. In punta di sentenza nessuna pistola, nessun colpo di grazia ravvicinato. Due consiglieri regionali radicali hanno presentato un’interrogazione al presidente del consiglio regionale del Lazio stupiti che la Regione Lazio facesse da madrina di «un’operazione crudele di riprovazione mediatica e sociale nei confronti di Francesca Mambro che ha condotto un esemplare percorso di reinserimento». L’avvocato della Mambro, Ambra Giovene, aveva richiesto, il ritiro del film perché falsava «i fatti veri» cui diceva di ispirarsi. La Procura di Roma ha respinto la richiesta e perché reputa che un film ha il diritto di ricostruire come vuole una vicenda cui fa riferimento e perché la Mambro, che di condanne all’ergastolo per fatti di terrorismo ne ha avute sei, non ha un gran che di reputazione da difendere. Decisione cui l’avvocato Giovene si è opposta.
Arrestata in quello stesso giorno di marzo 1981 dopo essere stata ferita durante la sparatoria di piazza Irnerio, la Mambro è rimasta in cella fino al 1998. Dal 1998 al 2002 usciva dal carcere al mattino e rientrava alla sera dopo un giorno di lavoro trascorso all’associazione «Nessuno Tocchi Caino», il segmento del Partito Radicale che si batte contro la pena di morte. Dal 2002, e in occasione della nascita della figlia Arianna (nata dal matrimonio con Giusva Fioravanti), usufruisce di un regime di detenzione domiciliare speciale e adesso di detenzione condizionale (fino a tutto il 2013) che le permette di stare a casa e purché non ne esca dopo le 21.
Lei ha mai ucciso qualcuno?
«Mai. Sono sempre stata condannata per concorso “morale”in azioni terroristiche di cui mi sono assunta completamente le responsabilità politiche e processuali. E difatti non mi sono mai vantata di non avere le mani sporche di sangue, perché noi facevamo delle cose da cui purtroppo il sangue scorreva. La mattina di piazza Irnerio portavo sotto l’ascella una Smith & Wesson 59 ma non ho sparato a nessuno. Il povero Caravillani non l’avevo proprio visto mentre fuggivamo dopo l’arrivo della polizia; ho saputo di lui e della sua morte dai miei camerati che cercavano di portarmi in salvo ridotta com’ero dalla raffica di mitra che mi aveva passato da parte a parte. Durante il processo mai nessuno mi ha imputato della sua morte, a cominciare dal pubblico ministero Loris d’Ambrosio, uno che cercava di capire anziché trattarci da “mostri”, tanto che la sua morte per infarto mi ha enormemente commosso. Esiste un libro voluto e curato dal Quirinale a ricordare tutte le vittime del terrorismo. In quel libro si dice Caravillani che “è morto per caso”».
Non eravate dei mostri, ma delle cose mostruose le avete fatte.
«Non c’è dubbio, e lo abbiamo pagato com’era giusto che fosse. Mio marito Giusva ha avuto il suo primo giorno di permesso dopo vent’anni di carcere, di cui otto in isolamento. Sono atti di cui dobbiamo portare la memoria, ciò che è tutt’altra cosa dall’alimentare l’odio ideologico sempre e comunque come fa il cortometraggio di cui stiamo parlando. Un cortometraggio da cui risulta che il suo autore non conosce neppure i dati reali dell’evento per come vengono ricostruiti nella sentenza».
In fatto del cercare di comprendere, sono stati in tanti della sinistra a difendere lei e suo marito dall’accusa che vi viene fatta di essere corresponsabili della strage di Bologna.
«Tantissimi. Da Franca Chiaromonte all’ex partigiana Leda Colombini, da Carla Rocchi allo stesso D’Ambrosio, da Furio Colombo a Giovanni Pellegrino, un dirigente del Pd che ha definito la sentenza che ci condanna “una sentenza appesa al nulla”. Una sentenza che non individua né i mandanti della strage né gli autori materiali e che non sa dire dove eravamo quella mattina. Semmai è singolare che di “garantisti” ce ne siano sempre stati di più a sinistra che a destra. La destra italiana recente s’è scoperta garantista solo quando si trattava di difendere Silvio Berlusconi».
La Procura di Roma rifiuta di stoppare il cortometraggio di De Camillis perché la sua reputazione di ergastolana è di per sé molto bassa.
«Questo vuol dire che mi si può attribuire qualsiasi cosa? Questo vuol dire che un eventuale regista di destra privo di onore potrebbe firmare un cortometraggio in cui si vedesse Adriano Sofri che dà il colpo di grazia al commissario Luigi Calabresi? Io non voglio mica si dica che nel marzo 1982 ero una santa, voglio solo che si rispetti la verità giudiziaria. La Procura sostiene che l’autore di un film possa ricostruire un evento come vuole? Ma allora non deve dire di quel film che è un cortometraggio che ricostruisce fatti veri. È pazzesco che De Camillis abbia avuto un premio che esalta la “qualità giornalistica” del suo lavoro».
Se lei oggi incontrasse la Francesca Mambro di trent’anni fa, che cosa le direbbe? La riconoscerebbe o la prenderebbe a pugni?
«Dopo molti anni e con un immenso sforzo sono riuscita a fare pace anche con lei».