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 2012  agosto 30 Giovedì calendario

“TI CHIAMERÒ PADRONE” LA MOGLIE CHE PER CONTRATTO DIVENTÒ SCHIAVA DEL MARITO


A conclusione di un rapporto tempestoso, ha denunciato l’ex marito per maltrattamenti in famiglia e stalking ma non si è limitata alle parole: a sostegno delle sue accuse ha esibito il “contratto di schiavitù” sottoscritto alla vigilia delle nozze. Due fogli dattiloscritti, una premessa e dieci clausole: «La schiava accetta di obbedire al meglio delle sue possibilità e di concedere se stessa per soddisfare ed esaudire i desideri del suo Padrone» recita il primo articolo, «la schiava rinuncia al suo diritto di godimento,
piacere, comfort e gratificazione, eccetto quello concesso dal proprio Padrone». L’accordo, definito «consensuale e a tempo indeterminato» è stato sottoscritto nel marzo 2004 e ha retto sette anni, poi la donna, una commessa padovana di 31 anni, ha chiesto il divorzio; l’ex coniuge, un quarantenne che gestisce numerosi locali in città, continua però a cercarla e a suo carico — particolare inquietante — c’è un precedente per violenza sessuale. Dieci anni fa ha imbavagliato e incatenato ad un tavolo la malcapitata fidanzata di turno che, una volta libera, è corsa a raccontare
l’accaduto ai carabinieri.
Una vicenda sconcertante, a metà tra l’Histoire
d’O
di Pauline Réage (il classico dell’eros la cui giovane protagonista accetta ogni sorta di perversione per amore del fidanzato-proprietario) e le
Cinquanta sfumature...
di E. L. James, trilogia bestseller che descrive a tinte forti la sottomissione complice della studentessa Anastasia alle fantasie sfrenate di un manager insospettabile. Tant’è. Aldilà dei risvolti pruriginosi, ora il caso è al centro di un’inchiesta della Procura della Repubblica, affidata al pm Sergio Dini. Che deve accertare anzitutto
il fondamento della denuncia alla luce del fatidico contratto stipulato. Nel testo, tra l’altro, si legge che «la schiava accetta di mettere a disposizione del Padrone il proprio corpo, per essere usato a suo piacimento» e che si impegna ad «abbigliarsi, acconciarsi e comportarsi come il Padrone pretende e a ricevere le punizioni appropriate per ogni infrazione al presente contratto accettandole con umiltà, imparando la lezione». Poi, a riprova della consensualità del patto, ci sono le regole dettate dalla partner a garanzia della propria incolumità:
«Il padrone non la punirà mai quando si trova in stato d’ira » e nel rapporto coniugale (che avrà natura esclusiva «escludendo lo scambio») saranno «vietate le pratiche di coprofilia, zoofilia, controllo della respirazione/ asfissia, marchiatura a fuoco, attività con armi e in genere atti che possano produrre atti fisici permanenti ». Non è tutto. Se durante
le “sessioni”, sia tra le mura domestiche che in luoghi pubblici, l’uomo avesse ecceduto i limiti, la moglie avrebbe potuto ricorrere alla safeword (la parola di salvezza: Mario) oppure, qualora fosse imbavagliata, al safesignal, battendo tre colpi con la mano: in tal caso il Padrone avrebbe interrotto l’attività, «evitando di punirla ». L’ex coniuge obietta che la partner era consenziente e sventola il contratto come un salvacondotto processuale. Bisogna vedere se questo basterà a evitargli l’incriminazione.