Laura Laurenzi, il Venerdì 30/08/2012, 30 agosto 2012
DIANA VREELAND AUTORITRATTO DI UN’ICONA DEL SUPERFLUO
Il diario, l’autobiografia, lo zibaldone di Diana Vreeland, zarina dell’eleganza, oracolo dello chic, è stato finalmente tradotto in italiano e sta per uscire per l’editore Donzelli. Pubblicato negli Stati Uniti nel 1984, cinque anni prima che l’autrice morisse, si intitola semplicemente con le sue iniziali: DV. La stessa sigla, ci tiene a dire la Vreeland, che i papi appongono sulle loro bolle, e che sta per Dominus vobiscum. Lei è stata una vera (fragore lady, ma anche la donna che inventò se stessa. Mai nessun giornalista nell’universo della moda ha contato più di lei, brillante icona del superfluo.
Davvero una vita lastricata d’oro, la sua, soprattutto quando, con dovizia di superlativi, a raccontarla è lei stessa. È sempre nel posto giusto al momento giusto con la gente giusta: alla Casa Bianca a consigliare Jacqueline Kennedy sul look, al bar assieme ad Andy Warhol, a casa propria mentre Greta Garbo rovista nell’armadio di suo marito e si prova i suoi cappotti, a cena da Cole Porter che l’aspetta al pianoforte improvvisando una canzone solo per lei, al ristorante San Lorenzo di Londra con il fotografo David Bailey e Jack Nicholson, a cui applica un cerotto caldo contro il mal di schiena obbligandolo a calarsi le braghe nel bagno dei maschi.
Ma sarà tutto vero? Ogni tanto sembra di sentir parlare il barone di Munchhausen. È lei stessa, nella penultima pagina del libro, a gettare il seme del dubbio: «Ci avete creduto, vero?». Che personalità, quanta autostima, che grande ego in una donna decisamente non bella, ma dal forte carisma. Nasce a Parigi nel 1903 e il suo cognome è Dalziel, che in gaelico antico significa «lo oso», presto il suo mantra, il suo motto. Padre scozzese, mamma (bella donna) americana, ha frequentato il jet set sin dall’infanzia. Parigi, New York, Londra: tutte le capitali del glamour. Sicché era normale che venissero a cena a casa loro Diaghilev e Nijinsky, che «era come un grifone domestico. Non aveva nulla da dire». Eccola, a otto anni, a Londra sugli spalti ad assistere all’incoronazione di Giorgio V. Essere parte integrante dell’alta società la porta a incontrare anche personaggi bizzarri, uno per tutti Buffalo Bill: «Ma quant’era chic il vecchio Bill. Con la sua barba sembrava Edoardo VII, e aveva i vestiti sfrangiati di pelle che avrebbero indossato tutti gli hippie degli anni Sessanta».
La moda, che lei più che raccontare o recensire detterà, diventa rapidamente l’’ubi consistam della sua esistenza costellata di privilegi. Ha fatto studi irregolari ma ha letto qualche classico e dunque si intenerisce sugli abiti di Natasha in Guerra e pace. «Dove sarebbe ora la moda senza la letteratura?» si interroga. Ha classe, ci crede e ama (adora) i paradossi. Ed è, o si descrive, snob e cosmopolita fino alla caricatura.
Il giorno del suo matrimonio con un uomo che le resterà accanto tutta la vita e le darà due figli maschi (si definirà «una madre terrificante») indossa in controtendenza un abito «dritto e accollato... molto neew age». Diana ha solo 18 anni ma è già padrona del mondo, A una festa a casa di Condé Montrose Nast incontra Joséphine Baker e ne rimane folgorata. La rivedrà poco dopo a Parigi, in un teatrino a Montmartre, sua vicina di sedia con un ghepardo al guinzaglio.
In Europa D.V. condivide il massaggiatore personale, il mitico Joseph, con la regina Maria d’Inghilterra. La quale adora fare shopping nei migliori negozi di Londra senza mai pagare: «Si limitava ad arraffare quello che le interessava». Uno slalom fra nababbi, teste coronate o ex coronate e tycoon quello dell’ubiqua Vreeland. Incontra la prima volta il duca di Windsor quando è ancora solo l’erede al trono, a una partita di polo a Long Island. Wallis Simpson invece è una sua cliente negli anni in cui Diana gestisce una boutique di biancheria intima a Londra. La prima volta ordina tre sontuose camicie da notte fatte su misura «per un fine settimana molto speciale». Saranno presto grandi amiche. Nessuna dama al mondo organizza pranzi con tanta eleganza, decreta la Vreeland.
Diventa una firma nota nel 1936, quando la direttrice di Harper’s Bazaar la vede ballare a una festa al St. Regis di New York. È talmente colpita dalla sua personalità che le offre di lavorare con lei. È l’apoteosi del futile e del mai-più-senza: esegeta del lusso. Diana tiene una rubrica dal titolo Why don’t you? in cui distribuisce consigli che definire irritanti sarebbe un eufemismo. Qualche esempio: perché non trasformare il vostro vecchio soprabito di zibellino in un accappatoio? Perché non usare la pelliccia di un giovane alce per rivestire il portabagagli della vostra auto? Perché non lavare i capelli biondi di vostro figlio con lo champagne avanzato? Già: perché?
Quando è a Capri, «pagana e meravigliosa», è con Mona Bismarck; quando è a Roma è con Luchino Visconti o con Consueto Crespi. Sapevate che al Grand Hotel c’era il portiere migliore del mondo? «Buzo, il più attraente, il più dolce, il più attento». Frequenta abitualmente la scrittrice Elsa Maxwell: «Non era una donna volgare», però sembrava «un cuoco in libera uscita», ma intanto «era una pianista sublime».
C’era questo e c’era quello. Sono le pagine di diario di ehi è invitato a tutte le feste. È lecito chiedersi quando Diana trovasse il tempo per lavorare. Eppure, racconta lei stessa e i suoi collaboratori confermano, lavorava per tre. A un party in Costa Azzurra, sempre scortata dall’infaticabile marito, è testimone di un duplice colpo di fulmine: quello fra Rita Hayworth e l’Aga Khan e quello fra Tyrone Power e Linda Christian. Molto più emozionante la gran tavolata su una banchina del porto di Antibes in onore di Maurice Chevalier. E dove è seduta Diana? Proprio di fronte a lui: «Mio Dio, che uomo attraente, e che ammaliatore!». Ma c’è un altro francese che la incanta, ed è De Gaulle, «il mio eroe». Diana si imbuca in una sua conferenza stampa e cade in estasi: «Usava un linguaggio meraviglioso. E aveva anche le mani della Comédie Francaise... le mani di un leader, quasi di un messia. È stata l’esperienza più eccitante della mia vita».
Coco Chanel non è solo la sua sarta di riferimento, ma anche una buona amica. Mentre in camerino le mette gli spilli al giro manica la tempesta di consigli filosofici del tipo «Vivi con rigore e vigore», o «Invecchia come un uomo». Poche le persone che la Vreeland ammira con tanto fervore: «Che fascino! Da innamorarsene. Era un’incantatrice, era bizzarra, inquietante, intelligente». Una sera la ebbe ospite a cena assieme a Helena Rubinstein: «Rimasero in piedi, come gli uomini, a parlare per quattro ore. Non ho mai visto tanta forza di carattere».
A Parigi conosce anche Jean Cocteau. Una sera va a fargli visita in albergo e lo trova disteso sul letto in una stanza affumicata a fumare oppio: «in attesa del loro turno, come arcangeli barocchi, c’erano Jean Marais in ginocchio su un lato del letto e un altro bel ragazzo in ginocchio dal lato opposto».
Dal poeta alla star. Eccola a New Vork, nel più chic dei locali, El Morocco, nientemeno che con Clark Gable: «Era tutto sostanza... e sesso... Aveva le ciglia più belle che abbia mai visto in un uomo... o in un essere umano. Erano esattamente quelle di un pony delle Shetland».
Prima lungamente su Harper’s Bazaar, poi dal 1963 fino al 1971 come onnipotente direttrice di Vogue America, dove licenziò una redattrice perché faceti troppo rumore con i tacchi, infine come consulente della sezione costume del Metropolitan di New York, dove ha organizzato dodici memorabili mostre, ha lanciato, rilanciato o rivisitato cento mode esotiche ma ha anche, capricciosamente, scritto: «Odio l’esotismo, perché è cosi sciocco». Oppure: «Non sono mai stata a Tahiti, però scommetto che è molto più insignificante di quanto si possa immaginare». A Vogue, tramutandole in celebrità, ha acceso i riflettori su modelle non convenzionali come Twiggy, questa strana, macabra bambolina». Ha imposto come paradigmi di raffinata bellezza attrici come Barbra Streisand, fotografata a Parigi da Avedon «di profilo con quel naso da Nefertiti». Ha sempre avuto in orrore la popolarità e ha teorizzato che «nella moda devi essere un gradino sopra rispetto al pubblico». E lei era talmente sopra che da un giorno all’altro Vogue le dette il benservito.