Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2012  agosto 28 Martedì calendario

KEITH HARING


Nel 1970 Keith Haring compì dodici anni e prese una decisione: smettere di crescere. Fermarsi lì, in quell’aspetto spigoloso e occhialuto da studente di buona famiglia della Pennsylvania, perché intuiva che le «parole dei grandi» non facevano per lui.
Già da qualche tempo coltivava un alfabeto bizzarro, fatto di segni corti e secchi, sagome buffe ma che composte sulla tela rimandavano a messaggi solenni: un abbraccio fraterno, una croce gravida di presagi, girotondi messianici. «Spiritualità nuda» la definisce il curatore Gianni Mercurio che a «Bianco & Nero», insieme alla regista Christina Clausen, porta un Haring segreto, inatteso: quello della contrapposizione tra pop e religiosità, autenticità infantile e spirito missionario nel diffondere il disegno come elemento unificante. Il Keith Haring come incarnazione degli anni Ottanta.
Un documentario, degli incontri e una mostra alla chiesa di San Francesco. Il film di Clausen «The Universe of Keith Haring» è il racconto della vita dell’artista, dall’adolescenza in periferia fino ai successi newyorkesi; l’esposizione è una dichiarazione di intenti: la serie dei Dieci Comandamenti e il dipinto «The Marriage of Heaven and Hell». Ossia: un atto di fede in forma laica, pop, grafica. «Ho incontrato Haring nel 1983, quando venne a dipingere al negozio di Fiorucci — racconta Mercurio — e mi sembrò un piccolo Cristo. Da sempre questa sua duplicità mi ha attratto: l’artista anarchico, prolifico, senza schemi da una parte e dall’altra un isolamento radicale, imperniato sull’arte come missione educativa e accessibile». Un Vangelo fatto di segni, messaggio primordiale e comprensibile, nato dagli studi di semiotica ma anche dal mondo di Disney e dalla pubblicità che si affermava ovunque.
I Dieci Comandamenti sono una contraddizione solo apparente: sulla tela vengono rappresentati i peccati (mani che afferrano banconote, una sessualità non gioiosa ma estrema) e non la punizione, come da Tavole della Legge. Un ribaltamento semantico che sarà al centro di alcuni incontri sul tema, previsti il 3 settembre. «La sua dottrina era questa — dice Christina Clausen, che ha lavorato al film per anni —: non proibire, bensì illustrare azioni ed eventuali conseguenze». Ed è qui che si coglie lo stretto legame di Haring con il suo tempo, con la particolarissima religiosità che ha attraversato gli anni Ottanta. «La paura del nucleare, la guerra fredda e l’Aids — commenta Mercurio — riportavano a galla una strana fede, che in Haring si manifesta come fede sociale, fiducia nel mondo e negli uomini». Negli Stati Uniti troviamo il movimento «Born again Christian» a cui appartiene Jimmy Carter. C’è persino (l’ebreo) Bob Dylan che pubblica un disco dal titolo «Saved», dove nel testo si aggiunge: «by the blood of the Lamb» («Salvati dal sangue dell’agnello»), una conversione che fa discutere. Negli anni Ottanta c’è il trionfo della New Age e dei veggenti di Medjugorje, il messaggio umanitario di Desmond Tutu e, ovviamente, la religione fortemente mediatica di Karol Wojtyla.
Haring è figlio di tutto questo. «È come se sacro e profano convivessero — dice Clausen —. Nel mio film, la testimonianza di Yoko Ono, che racconta di aver ricevuto un messaggio di Haring dall’aldilà, si accompagna al ricordo tenero e lucido di David LaChapelle». E in questo sempiterno adolescente («Voglio restare per sempre un dodicenne») si fosse addensato quel culto dell’immagine che esplose proprio negli anni Ottanta, alimentando una gigantesca liturgia dei segni: i crocifissi di Madonna, il volto di John Lennon stilizzato come un martire, la simbologia di «E.T.» di Spielberg. E poi c’è l’aspetto dell’agonia (l’Aids lo ha eroso lentamente), vissuta fino alla fine con febbrile voglia di consumarsi. «Le opere in mostra a Udine — spiega Mercurio — sono state fatte in pochi giorni. Lui era così: a differenza di Andy Warhol, non si risparmiava per proteggere il nome, il marchio, l’opera. Haring, fino alla fine, è andato a disegnare sui muri, in metro, tra la gente. È anche per questo che le sue quotazioni sono basse rispetto al reale valore delle sue opere».
E cinque anni prima di morire, nel 1985, Haring dipinse uno dei suoi quadri più imponenti (alto oltre 7 metri e largo 13), «The Marriage of Heaven and Hell» (in mostra a Udine), che gli era stato commissionato dal Roland Petit Ballet di Marsiglia. Lavorò ininterrottamente per ore, ascoltando musica, con le tele per terra, tratteggiando freneticamente omini in croce, mani che si sfiorano, mondi affastellati che si confondono come l’unione di opposti. Bianco e nero. «Avrei voluto fare disegni sulla sabbia — confessò in una delle ultime interviste —. Disegni nel deserto».
Roberta Scorranese

OPPONGO AI DUE COLORI ESTREMI LE SFUMATURE DELL’IMPROVVISAZIONE–

B ianco e Nero, Bene e Male: dicotomie che stanno strette al quarantenne Stefano Bollani, pianista di grido da più di un decennio, che su questi temi sarà protagonista di un concerto improvvisato in solitudine alla Chiesa di San Francesco, la sera del primo settembre. «Quando sento l’espressione "o è bianco o è nero" sono preso dallo stupore», confessa il musicista. «Non capisco come sia possibile avere opinioni così definite, che non tengono conto delle sfumature. Naturalmente ci sono alcuni argomenti nei quali la penso in un modo molto preciso ma sono davvero pochi! Evidentemente in questi nostri tempi bisogna schierarsi, su qualsiasi cosa, dal vicino di casa ai complicatissimi eventi mondiali. Francamente io non ci riesco, e non mi dispiace. Ho l’impressione che sia semplicemente un fenomeno mediatico, che tutti sentano la necessità di premere il bottone della risposta, cliccare mi piace oppure non mi piace».
Bollani, in verità, di idee chiare ne ha parecchie. Dai primi anni Novanta, diplomatosi al conservatorio di Firenze, ha bruciato le tappe rivelandosi jazzista di carattere al fianco del trombettista Enrico Rava, che lo ha portato davanti alle platee di tutto il mondo. Da allora il pianista ha superato i generi: solista generoso e istrionico, affabulatore incontenibile, scrittore, personaggio della radio e della televisione... Fra le sue imprese più recenti ci sono collaborazioni con musicisti brasiliani, duetti con la superstar del pianoforte Chick Corea, riletture di compositori contemporanei accanto a Riccardo Chailly e all’orchestra sinfonica di Lipsia. E certo questa variegata carriera conferma le sue parole: per lui è vietato schierarsi, scegliere un solo campo espressivo. E dunque come conta di soddisfare l’associazione Bianco&Nero che gli ha chiesto di esibirsi su questo difficile terreno? «Per me il bianco e il nero rappresentano i tasti del mio strumento. Quando suono da solo non preparo un programma preciso: di solito, appena prima di entrare in scena, penso a un tema e subito ci lavoro sopra. Adesso l’idea me l’ha data lei, mi raccomando, la scriva perché sono sicuro che io me la dimenticherò: inizierò suonando un brano soltanto sui tasti bianchi e un altro solo su quelli neri. E poi dirò al pubblico: Adesso li userò tutti, vedrete che la musica sarà decisamente migliore...». Però bianco e nero sono anche i colori della scacchiera: il senso del gioco, dell’interagire fra rivali che sono anche complici. In tante lingue il verbo giocare corrisponde al verbo suonare. «È vero, e quando si suona si gioca con regole molto precise. Naturalmente in questo caso bisogna proprio scegliere fra bianco e nero, rispettare le regole. Però il jazz ha insegnato che di tanto in tanto è bene poterle sospendere: sono un vocabolario da usare, non una gabbia che rischia di imprigionarci». Il jazz vive del contrasto fra bianco e nero, anzi fra bianchi e neri, i musicisti americani che insieme l’hanno inventato.
Anche le fotografie storiche di questa musica sono in bianco e nero, quelli sono gli scatti che ne hanno tramandato il fascino. «L’arte in bianco e nero non è fatta solo di quei due colori, è anche tutto ciò che sta nel mezzo. Penso ai grandi film di Buster Keaton, di Charlie Chaplin, per i quali tante volte ho creato una colonna sonora improvvisata: la loro sapienza risiede anche nella capacità di mostrare ogni sfumatura, ogni atmosfera. Sono film di straordinaria intensità, così ricchi che basta cambiare la musica per modificarne i significati. Ancora oggi, proprio grazie al fatto che sono muti, possono dialogare con i contemporanei; io vi ho sempre trovato degli spazi nei quali far penetrare le mie idee». Rigorosamente in bianco e il nero si presentano i musicisti classici; com’è per lei suonare con un’orchestra sinfonica? «Già, eseguendo Gershwin o Ravel ho dovuto vestirmi anch’io qualche volta da "pinguino"... L’esperienza è un po’ frustrante, mi trovo male a suonare con la giacca. Ecco, ancora una volta il bianco e il nero corrispondono a una costrizione. Quando guardo un’orchestra sinfonica mi sembrano tutti in maschera, come chiusi dentro una cornice. E le cornici mi fanno subito pensare ai musei, all’arte congelata».
Claudio Sessa