Silvio Raffo, Corriere della Sera 28/8/2012, 28 agosto 2012
EMILY DICKINSON, LA DONNA CHE RIVOLUZIONÒ LA POESIA
Da anni, da decenni, da quasi un secolo ormai si sente ripetere, come una verità scontata, che la sorgente della poesia moderna, della lirica novecentesca, è da identificarsi nell’opera di Charles Baudelaire e in quella dei suoi fratelli minori Rimbaud e Mallarmé. I supercelebrati e «maledetti» Fleurs du Mal sarebbero dunque la prima pietra miliare di una sorta di via aurea che condurrà in poco più di mezzo secolo al «mago» del 900 Giuseppe Ungaretti.
Senza nulla togliere all’indiscutibile auctoritas di questi mostri sacri, e riconoscendo che il «verslibrisme» — la più vistosa novità della poesia novecentesca — ha avuto in Francia i suoi più eclatanti artefici (dai sulfurei e immaginifici Simbolisti all’eclettico pre-futurista Apollinaire), varrebbe la pena, finalmente, di ampliare la visuale sul caleidoscopico scenario ottocentesco. Focalizzando l’obiettivo in una sinossi un po’ più accurata e attenta ai dettagli, si verrebbero a scoprire certe punte di diamante o nodi nevralgici, non necessariamente europei, in cui s’innerva qualcosa di più di una bizzarra eccentricità, il guizzo di una scintilla incandescente, di una fiamma vitale e rigeneratrice.
Il mandala-ologramma, l’aleph non europeo ma incredibilmente americano a cui si sta accennando è proprio lei: Emily Elizabeth Dickinson, la «reclusa di Amherst».
Nel 1858, l’anno successivo all’edizione degli a lei ignoti Fleurs baudelairiani e parecchi anni prima del meraviglioso delirio del Bateau ivre rimbaudiano, Emily scriveva versi come questi: «I would distil a cup/ and bear to all my friends/ drinking to her no more astir/ by beck, or burn, or moor!» («Vorrei stillare una coppa/ e offrirla a tutti gli amici/ brindando a lei che non corre/ più presso un rivo, una fonte, una brughiera!») o «We lose — because we win —/ Gamblers — recollecting which/ Toss their dice again!» («Perdiamo perché — vincitori —/ memori giocatori/ che rilanciano il dado!»).
Sono brani poetici composti di tre, quattro versi, in cui compaiono pronomi che non si riferiscono ad alcuna figura presente nel testo (l’«her» del primo frammento) o si gioca di fioretto con le parole («lose»/ «win» nel secondo) senza la minima preoccupazione di chiarire di cosa si sta parlando, di rifarsi a un qualsivoglia contesto.
Negli stessi anni il grande Walt Whitman, con «voce alta e sonora» («loud and strong») aveva annunciato la propria intenzione di cantare «The Modern Man» e «Life immense in passion». In toni programmatici affermava: «I myself but write one or two indicative words for the future» («Mi limiterò a scrivere una o due parole indicative per il futuro»); ma a tali affermazioni era di fatto seguìta una poesia più incline all’epica che all’epigramma. Quella di Whitman è la voce di un pioniere che vuole «propagarsi per il mondo»; Emily al contrario sussurra, accenna, rivela obliquamente per enigmi («Di’ tutta la Verità ma dilla obliqua»).
La cifra della sua poesia è quella dell’Ermetismo, non solo per una sua naturale vocazione all’essenziale, ma per un altrettanto innato bisogno di scardinare gli schemi della comunicazione poetica che la porta a risultati anche più arditi dei «profumi verdi» di Baudelaire o degli «arcipelaghi siderali» di Rimbaud. Al 1859 risale un testo il cui incipit è il seguente: «Our lives are Swiss» (secondo verso: «so still — so Cool») che mette in grande imbarazzo il traduttore ancor prima del lettore. La traduzione letterale sarebbe «Le nostre vite sono Svizzera»; si può tradurre, «tradendo» un po’: «Elvetica è la vita che viviamo».
Resta il fatto che ci troviamo di fronte a uno stravolgimento del lessico tradizionale, a un’operazione di adattamento «alchemico» della parola (la «parola che si fa carne») alle esigenze della musa. «Questa è la Finlandia dell’anno», scrive altrove Emily per rendere l’idea dell’inverno, fondendo geografia e poesia meta-linguisticamente. «La pena è un topo»: non è un incipit un po’ disorientante?
Invano cercheremo poeti contemporanei di Emily Dickinson che abbiano scritto versi della stessa fulminea intensità (e profondità metafisica) di questi: «Uno più uno fa uno/ il due — si finisca di usarlo —/ va bene a scuola —/ ma per l’intima scelta —// è meglio: vita — o morte —/ o eternità —/ Di più sarebbe troppo vasto/ per la comprensione dell’anima»). Certe Illuminations di Rimbaud possono, sì, avvicinarvisi («Elle est retrouvée!/ Quoi? L’Éternité/ C’est la mér melée/ avec le soleil»), ma dall’arco del «ragazzo dalle suole di vento» non vengono scoccati dardi acuminati e velenosi come quelli della vergine di Amherst. In lui prevale la «delicatesse» (anche sulla «visione»), in lei il rigore impietoso della «paralisi». Eccola la parola giusta: è lei stessa a dircelo in un suo celebre aforisma: «Quando avverto nel frutteto un nuovo portamento del vento e in me una sorta di paralisi, sono sicura che è Poesia».
Mezzo secolo prima dei nostri ermetici, le verità più nude e le domande più dirette-indirette vengono poste da Emily nella misura di un distico: «È l’Immortalità forse un veleno/ che gli uomini ne sono così oppressi?». È lo stesso identico respiro che palpita nell’accorata domanda di Ungaretti: «Chiuso fra cose mortali/ (anche il cielo stellato finirà)/ Perché bramo Dio?».
Il verso icastico, scolpito, il lampeggiante flash scandito dai mitici trattini che sostituiscono le virgole — la sospensione magica che ne deriva — non sono tutti elementi della migliore poesia novecentesca da Campana a Penna e oltre?
Può diventare un gioco. Di chi sono questi versi: «Non posso volerlo di più —/ Non posso volerlo di meno —/ tutta la forza della mia natura/ solo qui si consuma»: di Emily Dickinson o di Maria Luisa Spaziani? O ancora: «Non sai mai dove sei/ Non sei mai dove sai». (Anche qui: Giorgio Caproni o Emily?)
Non c’è dubbio: la vera madrina del Novecento è Emily Dickinson. Gli altri poeti di fine Ottocento — compresi Pascoli, D’Annunzio e Gozzano — conducono alla «poesia nuova» lentamente, gradatim. Lei «è» già un secolo avanti. È soltanto il suo «il vento che sconvolge la Sintassi». Senza una particolare preparazione o «cultura» letteraria, senza una precisa (o imprecisa) volontà programmatica, senza ombra di polemica e probabilmente senza autentica consapevolezza. Come si spiega un simile fenomeno? Non si spiega. Per ripetere le parole di un altro «irrecuperabile-imperdonabile», Robert Walser, «con un genio, si sa, non c’è niente da fare»: bisogna accettarlo per quello che è, e basta.