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 2012  agosto 28 Martedì calendario

PIÙ VERO DEL VERO. PRATICAMENTE FALSO


Se fosse un film, sarebbe una cosa tipo Eva contro Eva o Il servo di scena. Ma The Lifespan of a Fact («La vita media di un fatto», W. W. Norton & Company, pagine 123, 10,37 su Amazon) è un libro scritto — più o meno — a quattro mani. Le prime due sono quelle dello scrittore John D’Agata. Le seconde di Jim Fingal, uno dei fact checker (la figura «terza» tra la testata e il giornalista o lo scrittore, addetta alla verifica dei fatti) della rivista «The Believer», che nel 2005 decide di provare a pubblicare un articolo di D’Agata sul suicidio di un adolescente a Las Vegas. Lo stesso articolo era stato rifiutato da un altro periodico, «Harper’s Magazine», dopo che un altro redattore addetto al controllo dei fatti ne aveva sconsigliato la pubblicazione.
Il fact checker Jim Fingal riceve quindi l’articolo di D’Agata, che inizia così, secondo la traduzione fatta da «Internazionale»: «Lo stesso giorno in cui a Las Vegas il sedicenne Levi Presley si gettò dalla terrazza panoramica a 350 metri d’altezza dell’hotel-casinò Stratosphere, l’amministrazione cittadina vietò temporaneamente la lap dance in 34 locali di spogliarello dotati di regolare licenza, alcuni archeologi dissotterrarono da sotto un bar chiamato Buckets of Blood frammenti della più antica bottiglia di Tabasco mai rinvenuta e una signora del Mississippi sconfisse una gallina di nome Ginger a una partita di tris durata 35 minuti».
Bello, eh? Peccato che, secondo quanto risulta a Fingal: il numero dei locali di spogliarello non è verificabile; la bottiglia è stata ritrovata quindici giorni prima; il bar in cui è accaduto è un altro (e nessuno dei due si trova a Las Vegas); infine, la strana sfida a tris fra la donna e la gallina si è tenuta un mese dopo il suicidio di Levi Presley.
Stando così le cose, la mediazione tra le due Coree appare da subito quasi più semplice. Una delle cose più interessanti di questo libro è la costruzione grafica. Al centro c’è il testo originale dell’articolo. Intorno, le note del fact checker (in rosso se quanto scritto da D’Agata è palesemente falso o non riscontrabile; in nero se invece le verifiche hanno dato esito positivo) e gli scambi via email tra il fact checker e lo scrittore sulle obiezioni via via sollevate. Per la verità D’Agata parte spiegando di non avere bisogno di nessun fact checker, visto che nel suo «saggio» si è preso «alcune libertà». Ma Fingal replica che quella è la linea del giornale e quello è il suo lavoro, quindi deve farlo.
E prosegue contestando a D’Agata praticamente tutti i (molti) suggestivi dettagli dell’articolo: gli otto morti d’infarto (invece di quattro) di quel giorno, le modalità degli altri suicidi, il crollo del termometro più grande del mondo, l’impennata del prezzo dell’acqua minerale. Tutto questo è «volutamente inaccurato», scrive Jim. «È probabile, sì» replica John. Jim: «E la tua credibilità nei confronti del lettore? Non ti preoccupa?». John: «No. Non sono candidato a una carica pubblica». Jim: «Ma se il lettore smette di fidarsi di te?». John: «I lettori che si preoccupano della differenza fra 8 e 4 possono smettere di fidarsi di me. Ma i lettori che hanno a cuore frasi interessanti e l’effetto metaforico che l’insieme di queste frasi ottiene mi perdoneranno». Jim: «Qual è il vantaggio di usare 4 invece di 8 in una frase?». John: «Per me l’argomento è chiuso».
Questo dialogo spiega quasi tutto. In primo luogo, l’incompatibile idea che D’Agata e Fingal hanno di ciò su cui stanno lavorando. John ritiene che il suo sia un saggio, cioè un genere di scritto che si rifà a Erodoto, Cicerone e Montaigne, che (sostiene D’Agata) non esitavano a falsificare la realtà per raccontare la Verità con la «V» maiuscola. Fingal non ci sta: per lui esistono solo due tipi di scrittura: in inglese «fiction» e «non fiction». Nella prima si può fare quello che si vuole, nella seconda no. Ogni virgola dev’essere vera, per rispetto della Verità medesima, del lettore e (in questo caso) di un adolescente suicida e della sua famiglia.
Solo che John contesta il dualismo rigido fra fiction e non fiction, sostenendo di aver sempre percorso una terza via che sta esattamente a metà. D’Agata insomma si ritiene un artista, che non riesce a nascondere il suo disprezzo per chi (come Fingal) di fronte al suo autoproclamato status non gli concede qualsiasi libertà. E anzi, a volte s’impunta oltre ragione e ragionevolezza. Come quando, per esempio, scrive che sarebbe più corretto chiamare il padre del ragazzo Levi IV invece che «senior», si fissa su inutili distinzioni tra Las Vegas e la Clark County, questiona con pedanteria sul titolo accademico di un critico d’arte o si dilunga in un’assurda dissertazione sul determinismo linguistico.
Inevitabile che lo scambio dialettico fra i due diventi qualcosa d’altro, uno scontro di orgogli e di psicologie, tant’è vero che, all’inizio del quinto capitolo, arriva l’inevitabile: «Wow, Jim — scrive D’Agata — il tuo pene dev’essere molto più grosso del mio». Ed è ovviamente l’inizio della fine. L’insulto è l’altro modo (oltre il ricorso alla categoria «arte») rimasto a D’Agata. Ma non funziona: Jim si è appena sentito dire che il nome di una scuola è stato cambiato perché è «ridicolo». Poco dopo scoprirà che D’Agata ha modificato le citazioni da un articolo sui suicidi oppure il costo della costruzione dello Stratosphere building (500 milioni di dollari invece di 550) e debiti accumulati (800 invece di 887), solo per ragioni di «ritmo» di scrittura.
Quando poi John viene colto clamorosamente in castagna sulle origini del taekwondo e sulla storia della cultura coreana, prova a cavarsela tirando in ballo la verità emozionale, «la messa in pratica dell’esperienza del tentativo di trovare significato», dice, la bellezza dell’anarchia intellettuale. È l’ultimo tentativo, prima della resa, che arriva a 10 pagine dalla fine: «Jim, ti senti ingannato dal mio saggio. Lo accetto. Per te è inappropriato (…) mentre io lo sento come una parte necessaria del mio lavoro (…). Prendermi queste libertà è migliorare il mio lavoro artistico — e un’esperienza migliore e più vera per il lettore — cosa che non sarebbe successa se mi fossi attenuto ai fatti. Non siamo d’accordo. Ma non saprei che altra direzione prendere».
Poi John D’Agata scompare. C’è solo Jim, che non sa resistere alla tentazione di stravincere, mettendosi a questionare anche sui referti del coroner e sulle testimonianze dei genitori del suicida. Nelle ultime due pagine c’è solo una cornice rossa di osservazioni intorno a un quadrato bianco.
Il lettore ritroverà i due insieme in una foto in quarta di copertina. Sul suo blog, jimfingal.com, il fact checker scrive addirittura: «Siamo diventati amici», e i link ai dibattiti radiofonici registrati assieme lo dimostrano.
Nella medesima quarta di copertina c’è però scritto che Jim Fingal ha smesso di fare il fact checker e ora progetta software. A inevitabile domanda, ha risposto che non è colpa dei sette anni passati a litigare con D’Agata, ma del fatto che (oltretutto) nemmeno lo pagavano. Spiegazione meno suggestiva, ma da riportare con il massimo di precisione possibile.
@tpellizzari