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 2012  agosto 28 Martedì calendario

QUEL PREGUIDIZIO RICORRENTE SULL’ITALIA

Se sulle spiagge romagnole i colletti blu tedeschi sono in calo, i loro connazionali più ricchi le vacanze nelle belle campagne del centro Italia le fanno ancora. Sono loro – banchieri, industriali, editori, e politici della "Toscana Fraktion", variante germanica della gauche caviar – che più degli altri conoscono e amano l’Italia. Sarebbe quindi loro dovere fare prima di tutti gli altri una diga in patria ai luoghi comuni ormai consunti e un po’ patetici. Come quello che l’Italia non aspetta altro che gli altri, Berlino in testa, si distraggano per lasciarsi andare a pratiche economiche disdicevoli per una moneta unica. L’esempio è di qualche giorno fa, quando l’autorevole Faz non ricordava – o non sapeva affatto - che il "divorzio" tra Tesoro e Banca d’Italia (cioè l’interruzione del meccanismo automatico di acquisto di titoli di Stato da parte della banca centrale rimasti non sottoscritti dal pubblico) risale nientemeno che al 1981, ad opera di Carlo Azeglio Ciampi e Nino Andreatta, giusto per citare un paio di nomi che nel Nord Europa riscuotono ammirazione e rispetto. Ma la storia degli sforzi italiani sul cammino europeo, fatto sì di svalutazioni competitive ma anche di manovre dolorose, va ben oltre il sentito dire.
Giusto tre anni dopo il divorzio arriva il famoso accordo di San Valentino. Era il 14 febbraio 1984, quando l’allora premier Bettino Craxi, con l’appoggio della Dc di De Mita, firma con Cisl e Uil – e contro la componente comunista della Cgil – il taglio di quattro punti di contingenza. Lo scontro sociale e politico (Enrico Berlinguer si schiera contro) sale alle stelle, come prevedibile, ma il Governo pentapartito va avanti per la sua strada. E l’inflazione inizia a scendere. Già perché era la spirale dei prezzi a tenere l’economia reale italiana (quella finanziaria in quel periodo andava bene, la Borsa avrebbe galoppato fino al 1987) in una morsa stretta, derivante dal secondo shock petrolifero avviato nel ’79 a seguito della rivoluzione iraniana. Altro che effetto del debito pubblico, come tuttora si sostiene nei circoli tedeschi che in questi giorni stanno tornando alla carica, prendendo di mira la Bce e soprattutto Mario Draghi. Lo stock di BoT e CcT iniziava a salire rapidamente, ma la manovra salariale – a costo di pesanti autunni caldi – tenne la barra dritta. Una strada tracciata fino a fine decennio, quando – e si era arrivati ormai al terribile ’92 – fu abolita definitivamente la scala mobile, che pochi anni prima era considerata un totem sindacale. Ma i tempi erano cambiati, la liberalizzazione dei capitali era una realtà progressiva, Maastricht pochi mesi prima aveva imposto una prospettiva straordinaria, e i governanti italiani – pur non ancora consapevoli che la caduta del Muro stava per cancellare un quadro politico quarantennale – seppero stare al passo con i tempi. Poi la grande crisi del ’92 – giusto 20 anni fa - con il no danese all’euro di inizio giugno, l’inizio della speculazione sulla lira, i conti a rischio, la prima manovra di luglio, l’estate di fuoco che mise il Paese davanti alle sue responsabilità e ai rischi potenziali. Ma anche allora, quando a Bonn – nonostante ci fosse uno statista del calibro di Helmut Kohl a tenere la barra – si guardava all’Italia con crescente sospetto e qualche tentazione di sganciare il moschettone ("Europa a due velocità" era il mantra preferito nei circoli anseatici) la capacità di reazione di Roma fu forte, nonostante il quadro politico fosse drammatico, con gli arresti di Mani Pulite ormai avviati e in piena offensiva mafiosa contro lo Stato. Manovre dure, durissime, ma anche il varo di riforme strutturali su materie come sanità, pensioni e pubblico impiego sempre rimandate e l’avvio delle privatizzazioni (si iniziò con l’annuncio della vendita di Credit e Nuovo Pignone), programma ambizioso che ha rappresentato una svolta, con l’azione di Giuliano Amato a Palazzo Chigi, che in una notte trasformò in spa Iri, Eni e Ina, una rivoluzione per l’Italia di allora, tanto per citare un fatto tra gli altri. Arrivò la svalutazione e l’uscita dallo Sme, ma la Germania capì che l’Italia non avrebbe abbandonato la via imboccata e neppure a lei conveniva lasciarla indietro. Tanto che il risanamento avviato nel ’92 sfociò poi nel Governo Ciampi, fino al fondamentale accordo del 23 luglio 1993 con le parti sociali che consolidò una nuova politica dei redditi, una riforma profonda che ricorda quelle tedesche di qualche anno fa e che hanno gettato il successo di questi tempi dell’economia tedesca. Allora il tasso di sconto della Banca d’Italia era al 10%, e l’accordo fu salutato da Via Nazionale con una riduzione al 9%. Già la politica monetaria: i tassi calarono gradualmente durante gli anni ’90, accompagnando (senza strappi, e in questo il braccio di ferro Governo-Bankitalia si fece sentire a più riprese) l’avvio dell’euro.
Fa una certa impressione tornare con il pensiero a venti anni fa. Sul finire dell’agosto ’92 si stava preparando il vertice dei ministri economici e dei governatori della Comunità europea, che si sarebbe tenuto nella cittadina termale inglese di Bath, vicino a Londra. Alla vigilia del summit al centro c’era, tanto per cambiare, l’intransigenza della Bundesbank, che (allora) non voleva abbassare i tassi per non dare segnali di debolezza. Come previsto, e con qualche respiro di sollievo, arrivò il sì al referendum francese sull’euro, e l’aria pur faticosamente cambiò. Ma i compiti a casa l’Italia li aveva fatti da tempo e altri risultati - certo non tutti quelli necessari per modernizzare il Paese, su cui ancora si consumano Governi e maggioranze - sarebbero arrivati. Resta ancora moltissimo da fare sul fronte delle riforme, ma se c’è un giudice a Berlino allora si ricordi che è da tempo che a Roma le assunzioni di responsabilità – e non solo nelle crisi - sono moneta corrente.