Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2012  agosto 28 Martedì calendario

I FIGLI DELLA «CIRCE» SI OPPONGONO ALLA GRAZIA

Immeritatamente nobilitata da un appellativo mitologico, Maria Luigia Redoli, nota come la Circe della Versilia, ritorna mestamente a far parlare di sé a oltre vent’anni dal delitto di cui fu artefice. Era infatti il 17 ottobre 1989 quando suo marito Luciano Iacopi, 69 anni, ricco mediatore immobiliare, venne trovato nel garage della villetta di Forte dei Marmi ucciso da ben diciassette coltellate. Scagionata in primo grado, la Redoli, allora cinquantenne dicono avvenente — bellezza platinata e vistosa, trucco e sguardo ammaliante sopra le righe —, fu condannata all’ergastolo con una sentenza definitiva al termine della quale stava scritta una specie di raccomandazione che non concedeva scampo: «Fine pena mai». Aveva assassinato il marito in collaborazione con il giovane amante Carlo Cappelletti, un energumeno ventiquattrenne, ex carabiniere a cavallo, quasi coetaneo dei figli di lei, Tamara (19 anni) e Dario (15).
Ora, in stato di semilibertà, la Circe da fotoromanzo, che tre anni fa si è sposata con un ragioniere in pensione, ha fatto richiesta di grazia. Ma sono stati proprio Tamara e Dario, con una durissima lettera inviata al Tirreno, a dire la loro contrarietà sulla domanda di clemenza. Gli stessi figli che nelle fotografie d’archivio pubblicate sui settimanali dell’epoca appaiono sorridenti e in apparenza sereni, uniti da un grande abbraccio con la madre e il suo amante in un ritratto patinato da famigliola felice.
In realtà, quando scoppiò, il caso Redoli conteneva tutti gli ingredienti utili a riempire pagine e pagine di giornale. Ingredienti magari un po’ scaduti, ma sempre arrapanti se tinti di giallo e calati in scenari rarefatti paolocontiani, tra Mocambo e tinelli maròn. Tutto un po’ fuoritempo, una protagonista (ex) belloccia, una provincia (ex) godereccia, discoteche (ex) trendy (la Bussola in primis), una riviera (ex) vip. E poi: follie notturne da film cochon anni Settanta, corna multiple, incrociate, ricambiate (anche Iacopi si dava da fare), una coppia sbilanciata (la maliarda di mezza età con il puledro selvaggio e infuocato di passione), alberghi a ore, un Hotel Santo Domingo che diventa nido d’amore, una fuoriserie che ricorda vagamente il Sorpasso, intrighi, portafogli pieni, assegni, minacce, ricatti, eredità promesse e negate. E maghi e cartomanti a gogò, cialtroni, bugiardi, canaglie, furbi, rubacuori, fattucchiere. Tanti soldi, tanto sangue, sesso e un po’ di mistero.
Roba che adesso, a distanza di oltre vent’anni, lascia solo il suo residuo più patetico e una bava velenosa: nella lettera dei due figli che tentano faticosamente di dimenticare e di far dimenticare il fattaccio. L’antefatto più recente è una dichiarazione che la Circe invecchiata avrebbe consegnato al giornalista Mario Spezi, in un libro del quale si allude alla presunta complicità di Tamara nell’omicidio del padre. Dichiarazione subito smentita, come da copione, ma ribadita invece dall’autore del volume. Scrive Tamara Iacopi («anche a nome del fratello Diego»), tanto per gradire: «Non varrebbe neanche la pena dare tanta soddisfazione e importanza a mia madre». Non ne varrebbe la pena, anche perché Tamara avrebbe solo voglia di pensare alla sua famiglia, essendo oggi una signora di 43 anni con marito e figlia. «Nonostante siano trascorsi gli anni, pensavo che nostra madre si fosse calmata. Si è risposata ma non è servito a nulla. Neanche la vita matrimoniale e quella del carcere sono servite a rabbonire il suo animo cattivo e malvagio». Non bastava dire «cattivo»? No, «il suo animo cattivo e malvagio». Doppia aggettivazione, tanto per gradire, ancora. Perché? «In tutto questo tempo non ha fatto altro che rovinarci gli anni più belli della nostra vita». Degli ingredienti variopinti nero-rosa-gialli di un tempo è rimasto non il risentimento, tantomeno il perdono, ma solo l’odio più sordo. «Di recente, durante una chiacchierata con una assistente sociale che chiamava al telefono dal carcere milanese di Opera per passarmi mia madre nonostante le avessi intimato di non cercarmi più, dissi che oltre a lasciarmi in pace, volevo essere avvisata solo quando lei era in punto di morte per darle una sepoltura a fianco di mio padre. Considerato quello che è accaduto, oggi non intendiamo neanche darle una adeguata sepoltura: per noi è già morta e sepolta». Insomma, la pseudo-Circe della Versilia ricorda piuttosto, sia pure molto alla lontana, Clitemnestra, la leggendaria assassina di Agamennone, suo marito. Ad essa i figli Elettra e Oreste giurarono odio perenne, al punto da vendicare il padre-eroe uccidendola. La mitologia, si sa, trasforma tutti i personaggi in eroi e i fatti più squallidi in nobili sentimenti. Ma né la Clitemnestra di Opera, né il suo defunto marito, né il suo amante e neppure i suoi figli appartengono all’epica.
Paolo Di Stefano